La bellissima pellicola di Jonas Carpignano è prima di tutto una apologia del neorealismo ritrovato, un neorealismo moderno fatto di commistione fra ciò che è reale (i protagonisti, l’intera famiglia Amato, sono presi dalla strada) e ciò che è costruito (la sceneggiatura scritta battuta per battuta), in un continuo gioco di specchi in cui lo spettatore è catturato, ma presto smette di domandarsi quale sia il confine tra la vita vera e la narrazione. Perchè quando quest’ultima è convincente, l’empatia costruita col protagonista è talmente forte da reclamare una fusione con lui. Nonostante Pio sia figlio di una delle etnie più screditate al mondo e malvolute da tutti (i rom, gli zingari) A Ciambra fa il miracolo di farci immedesimare in lui attraverso categorie che trascendono le differenze culturali, i precetti educativi, le discrasie linguistiche (i personaggi parlano qui in italiano, ma in una forma dialettale/calabrese così stretta da necessitare dei sottotitoli).
Pio siamo noi nell’affannosa ricerca di una via personale per l’esprimersi della nostra identità, siamo noi e la nostra adolescenza spesa a girovagare per le strade del mondo senza sapere che via intraprendere, Pio siamo noi e noi siamo Pio mentre lo osserviamo di spalle, lo pediniamo, e assistiamo partecipi e coinvolti al susseguirsi dei momenti che compongono la sua vita. Dai tramonti alle albe dei suoi giorni, che illuminano di una luce debole e fioca il suo futuro ombroso in un mondo analfabeta e ladro, ma saldamente radicato nel valore della famiglia e della libertà della strada (“Eravamo liberi sulla strada senza padroni, ricordati Pio, siamo noi contro il mondo” gli ricorda il nonno prima di morire).
Il secondo miracolo del film è che riesce ad affidare il ruolo di unico eroe positivo, personaggio di riferimento fondamentale per la formazione di Pio, ad un altro rappresentante di categoria umana bersagliata massimamente dall’odio xenofobo: il migrante “marocchino” (così i rom appellano i loro odiatissimi vicini di “campo” senegalesi), Ayiva/Koudous Seihon, unico attore professionista della pellicola. Pio si appoggia a lui quando i puntelli della sua famiglia cominciano a cigolare, e trova in lui, egli stesso essendo un “diverso per antonomasia”, trova nell’altro, nel “marocchino” spregiato dalla sua comunità, il prossimo suo, un fratello maggiore di cui fidarsi e a cui affidarsi per sbagliare un po’ di meno. Un fratello da tradire per crescere moderno Caino e vedere la nuova luce, quella del mondo degli adulti. Quella dove anche l’ultima illusione di una possibile lealtà interetnica, intercomunitaria, salta definitivamente.
Il regista italoamericano, cresciuto tra Roma e New York, qui al suo secondo film dopo Mediterranea, ha dato senz’altro prova di una eccezionale “sensibilità pittorica” come è stata definita da Internazionale, riuscendo a rendere bello tutto quello che inquadra, campi nomadi, bambini che fumano e rifiuti. Non per niente il viaggio di Jonas Carpignano nel mondo rom di Gioia Tauro è stato scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar 2018 e ha tra i suoi produttori un “padrino” d’eccezione come Martin Scorsese, che in più occasioni si è dichiarato perdutamente innamorato di questo film.