Youssef Chahine, poliedrico e raffinato uomo di cinema, nato ad Alessandria a metà degli anni Venti e formatosi inizialmente negli studios americani, sovente si proclamava “fieramente indipendente”, e nel corso della sua lunga carriera tale affermazione ha riecheggiato nell’esibizione di principi e dilemmi di una cultura complessa, quella araba appunto, incarnati da temi universali e plasmati da personaggi comuni e dalle loro storie. Regista, attore, produttore e montatore, Chahine amalgama nella sua composita visione il sistema e l’estetica della Hollywood classica e il neorealismo italiano, in un cinema che “parla arabo”, ma che si rivolge al mondo intero.
Il film che apre la sezione “Chanine: Glamour, musica e rivoluzione. L’ultimo degli ottimisti arabi”, Bab Al-Hadid - Stazione centrale (1958) testimonia da un lato la straordinaria capacità di Chahine di fondere generi e atmosfere diverse, si pensi ai frammenti melò che si innestano su briose sequenze musicali, o ancora al registro della tragedia su quello della commedia; dall’altro l’attitudine del regista a legare indissolubilmente la condizione e le relazioni dei personaggi all’ambiente culturale e sociale che li accoglie e, in taluni casi, determina e produce.
Considerato come uno dei capolavori assoluti del cinema arabo e come il primo film in cui si definiscono compiutamente lo stile e il registro visivo di Chahine, Bab Al-Hadid delinea e rappresenta le ambiguità e le contraddizioni della società egiziana della fine degli anni Cinquanta e le miserie quotidiane di uomini e donne comuni che popolano con il loro incessante “brulichio” la stazione centrale del Cairo, cuore pulsante di un paese in tumulto. All’incrocio di una moltitudine di sguardi, Chahine pone Kenaoui (interpretato dallo stesso Chahine): povero fra i poveri, storpio - segnato dunque da un difetto spesso assimilato alla manifestazione del “male” -, reietto, indesiderato, non visto. La dialettica che si stabilisce fra il vedere e l’essere guardato è alla base della struttura di Bab Al-Hadid che impone a Kenaoui il solo ruolo di osservatore, represso e frustrato. Simile a un cacciatore, Kenaoui affina dunque il proprio sguardo, indugiando sulle silhouette delle modelle delle riviste o sui corpi delle donne che attraversano la stazione. In una società in cui gli sguardi maschili possono essere intesi come “atti” che “toccano” e “corrompono”, Kenaoui ribalta le possibilità mitopoietiche del saper vedere, esasperando quelle violente del possesso che distrugge e annichilisce, attraverso uno sguardo che veicola veri e propri gesti predatori.
Fra voyeurismo e seduzione si consuma la drammatica relazione fra Kenaoui e la bella Hanouma (Hind Rostum), vitale venditrice di bibite, innamorata di Abu Gaber (Abdel Aziz Khalil), aspirante rappresentante sindacale dei lavoratori della stazione. La donna tollera lo sguardo del mendicante escludendolo, negandogli la possibilità di essere visto e compreso: si pensi alla sequenza della proposta di matrimonio, in cui Kenaoui osserva con vorace concupiscenza Hanouma, mentre la donna guarda davanti a sé, relegando lo spasimante alle proprie spalle, in una dimensione metaforica e concreta allo stesso tempo. Perfetto e terribile contrappunto a questo momento, la sequenza finale del film, in cui grazie alle parole dell’unica persona che lo vede e lo comprende - l’uomo del chiosco di giornali che lo aveva accolto e accettato anni prima -, gli occhi di Kenaoui si liberano dalla violenza per immaginare un sogno, quello appunto del matrimonio con Hanouma. Lo sguardo rapace si addolcisce, Kenaoui dimentica il desiderio di possesso lasciandosi “addomesticare”, divenendo una preda, fragile e indifesa.
Sullo sfondo delle relazioni “visive” fra Kenaoui e il mondo che lo circonda e del voyerismo metacinematografico che pervade il film, Chahine rappresenta un universo negletto e bistrattato, riconoscendo dignità alle classi povere e sfruttate, rifuggendo facili estetizzazioni e attingendo a un racconto a più voci che inneggia alla giustizia sociale.