I volti di Lenin, Gramsci, Togliatti in classici ritratti fotografici accompagnano i movimenti ginnici (dal greco γυμνός/nudo) e le ri-flessioni di un gracile Enrico Berlinguer, figura essenziale, sobria e trasparente. Nel docufilm di Andrea Segre il tempo scorre lasciando segni indelebili sui corpi e nelle menti di una classe dirigente che si oppone allo “stato delle cose” con uno sguardo orientato ad un utopistico (ma sempre immanente) futuro di un paese in trasformazione.
Il periodo biografico dal 1973 al 1978 racconta di un segretario del PCI che, sulla scia dei fermenti ideologici del Cile di Salvador Allende (poi soffocati dai venti reazionari del regime di Pinochet sostenuti dalle logiche imperialistiche degli Stati Uniti d’America), vede (e coerentemente segue) una via democratica al socialismo e al potere delle masse per una società più giusta, non condizionata da un ammorbante consumismo.
In tale percorso il lucido e visionario condottiero del partito italiano, che in quegli anni, contava più di un milione di iscritti, diventava ispiratore di un’autentica forza popolare in grado di affermare la propria “posizione” in ambito geopolitico occidentale (e non solo). Non poteva che essere inviso sia a Mosca (con il PCUS che guardava con sospetto alla sua prospettiva di larghe alleanze) sia a Roma con la DC di Andreotti (il camaleontico Paolo Pierobon) che voleva mantenere lo status quo e la sua cattolica influenza.
Emblematico è il referendum abrogativo sul divorzio del 1974, promosso da Amintore Fanfani, benpensante democristiano. Berlinguer intuisce che si tratta di una mossa strategica delle strutture politiche più retrive per dividere l’opinione pubblica e ostruire la strada ad una collaborazione tra le fazioni di stampo progressista.
Il regista veneto, consapevole di questi eventi cruciali, gira immagini di “famiglia” (gli episodi personali dello statista sardo che si apre ai suoi cari con fertili discussioni e umani dubbi, interpretati mirabilmente da Elio Germano che evita la sterile imitazione) che sono speculari ai confronti dialettici in qualsiasi organizzazione/aggregazione civile (dalle scuole alle fabbriche).
Sguardo privato e pubblico tendono ad essere un solo atto identitario in un ambizioso processo rivoluzionario. Non casualmente sin dai titoli di testa si impone la lapidaria frase di Gramsci: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo.”
Il Berlinguer di Segre (e del sodale sceneggiatore Marco Pettenello) è uomo di ascolto e di parola. In un paese in cui si cominciano a manifestare le idee a voce alta e per slogan (negli ormai prossimi anni ’80 il marketing verbale sarà l’incipiente virus che contaminerà il linguaggio “governativo”) il leader del PCI, imperterrito, continua a scrivere (le ultime sequenze della pellicola lo mostrano mentre legge un’intima lettera all’amata moglie) e declamare meditate dissertazioni, semplici e di toccante profondità per empatia e capacità di osservazione.
In lui c’è una laica fede nelle parole che possono cambiare il mondo. Infatti tuttora risuona l’eco del discorso pronunciato il 3 novembre del 1977 in terra sovietica per celebrare il 60° anniversario della Rivoluzione d’ottobre. In pochi minuti il carismatico comunista nato a Sassari, davanti ad una platea perplessa e stupita, (ante)poneva, come in un monito, i valori della democrazia (libertà di pensiero, plurali espressioni culturali e religiose) a fondamento di una (nuova) società d’impronta socialista. Segre ri-costruisce accuratamente il contesto congressuale e registra l’audace eloquio che (s)piega la Storia, destinato a non essere compreso, estraneo agli stessi militanti.
Anche le sonorità etniche inquiete e rarefatte di Iosonouncane, talentoso musicista/cantautore originario di Buggerru, esprimono con intensità (in particolar modo nel brano Madre) il sofferto rapporto del protagonista con la madre naturale (morta prematuramente per un’encefalite letargica) e con la madre Russia, modello istituzionale e “teorico” della dottrina marxista-leninista, a lui familiare ma da cui gradualmente si separa.
Il grande progetto dell’indomito Enrico si ridimensiona nel 1978 con il tragico assassinio, ad opera delle Brigate Rosse, del presidente della DC Aldo Moro (un timido e convincente Roberto Citran) che condivideva il sogno di un “compromesso storico” tra socialisti e cattolici, foriero di un moderno e virtuoso riformismo che contrastasse l’irrefrenabile ascesa di un prepotente capitalismo (significative le riserve di un preoccupato Gianni Agnelli in un filmato di repertorio).
Nelle fasi finali la luce “grigia” di Benoît Dervaux (direttore della fotografia degli ultimi film dei fratelli Dardenne) si posa sul mare di Sardegna e sull’orizzonte nebuloso di un provato Berlinguer e il sapiente montaggio di Jacopo Quadri restituisce immagini televisive dei contradditori flussi storici che seguiranno con esponenti chiave della scena politica internazionale (Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Michail Gorbacev).
Eppure il vento soffia ancora…