Simbolo e manifesto di un’epoca breve e intensa, in cui coincisero e confluirono intenzione ed espressione autoriale, successo di pubblico e apprezzamento da parte degli esponenti del potere, di ogni grado e ruolo, Čapaev (1934) dei fratelli Vasil’ev ha inaugurato e aperto ieri pomeriggio la sezione Seconda Utopia 1934: l’età dell’oro del cinema sonoro sovietico. Il curatore, Peter Bagrov, ha ricordato correttamente la fama di questo film, conosciuto, visto e amato da ogni cittadino sovietico, frammento costitutivo poi del canone della cultura russa, ispirato al romanzo omonimo di Dmitrij Furmanov (commissario di reggimento di Čapaev), precoce emblema e modello del realismo socialista. Il romanzo e il film cristallizzano un immaginario composito, in cui realtà e finzione si amalgamano e confondono, mentre i racconti del passato e la riflessione sul presente si intrecciano per costruire un futuro migliore.
Sergej e Georgij Vasil’ev, conosciuti semplicemente come “fratelli Vasil’ev” (ma fra i due non c’erano legami parentali), sintetizzano e rispecchiano a partire dalla loro stessa formazione la storia del cinema sovietico: dopo l’entusiasmante periodo del muto e la sperimentazione delle avanguardie, l’elemento propagandistico diviene preponderante e la crisi profonda degli anni Trenta rappresenta uno stallo nella produzione e distribuzione di film originali. Parallelamente, dagli studi presso l’Istituto di Arte di Leningrado e di Mosca, dalle esperienze come montatori al Goskino, senza dimenticare la lezione di Sergej Michajlovič Ejzenštejn, i fratelli Vasil’ev realizzano con Čapaev un esemplare e paradigmatico equilibrio fra istanza autoriale, approfondimento psicologico di situazioni e personaggi e intenzioni propagandistiche. Le immagini e la storia di questo prezioso esperimento raccontano solo in apparenza le vicende di Vasilij Ivanovič Čapaev e del suo manipolo di soldati, costruendo un coinvolgimento emotivo complesso e crescente, avvalendosi di momenti fugaci di quiete e rispecchiamento nella natura (il fiume diviene presenza costante), di scontri fratricidi che denunciano l’ambiguità della rivoluzione, di intensi attimi drammatici e di gag comiche e paradossali.
L’eroe nuovo, il protagonista Čapaev (Boris Babočkin), è un contadino, semplice e rozzo, che diventa soldato e comandante durante la Guerra e poi vero e proprio leader dell’Armata Rossa. Affiancato malvolentieri dal commissario bolscevico Grigorij Furmanov (Boris Blinov), Čapaev rappresenta un nuovo stadio nel cammino evolutivo del leader popolare: umili origini sorrette dal partito. Il rapporto stesso che si instaura fra Čapaev e Furmanov intreccia ardore, orgoglio patriottico, ideologia e politica: precisa e ironica a questo proposito la sequenza in cui Čapaev si rivolge ai suoi uomini e ai contadini del villaggio occupato, il suo enfatico e retorico discorso, in cui si proclama un compagno fra i tanti (tovarišč), incappa per un momento in una querelle oscura e delicata che sembra voler stabilire quale fosse la parte giusta, quella della Seconda o Terza Internazionale. Accanto a Čapaev si staglia allora la figura di Furmanov, capace da questo momento in poi di educare e “addomesticare” l’eroe contadino. L’evoluzione di Čapaev, che allude senza troppi nascondimenti alla figura e alla mitologia di Stalin stesso, è concreta e palpabile anche in termini iconici: si passa dal rude contadino che affina strategie belliche usando ortaggi e verdure al condottiero indomito che in sella a un cavallo bianco guida le truppe alla vittoria.
Čapaev è infatti anche e forse soprattutto un film di guerra, in cui spettacolari e dinamiche sequenze di combattimento diventano metafora di scontro e lotta di classe o simboli iconici potentissimi: si pensi alla marcia ordinata degli “aristocratici bianchi” contrapposta alla caotica organizzazione dei rossi; o ancora alla mitragliatrice e al carro armato, segni mitici e popolari allo stesso tempo, strumenti di vita e di morte. Infine, è proprio questo il cuore del film dei Vasil’ev: la lotta per la vita impone la morte del nemico, anche quando il nemico è un fratello, un amico, un concittadino. Prima dell’ultima e decisiva battaglia, un bambino fugacemente chiede “Ma per cosa muoiono gli uomini?”, “Per una bella vita”, risponde un anziano. In questo senso allora il passato, il racconto del periodo terribile della rivoluzione, e il presente, quel 1934 dell’uscita del film, breve parentesi felice prima del terrore, ricordano il sangue dei morti, promettendo una vita migliore. Prima dell’ultimo scontro, mentre i commilitoni intonano un coro popolare dei rossi che ricorda una tempesta profonda, Čapaev schiude la possibilità di un radioso avvenire riservato ai giovani innamorati Pet’ka (Leonid Kmit) e Anka (Varvara Myasnikova): dopo la guerra, sembra predire, vi sposerete e “non vorrete morire mai”. Il film e la storia si chiudono invece drammaticamente con le morti di Pet’ka e dello stesso Čapaev, colpito durante una disperata traversata, nel fiume simbolo di quell’estate di resistenza e rivoluzione.