Tratto dall’omonimo lavoro teatrale di Ettore Giannini, qui anche sceneggiatore, Carosello napoletano è un insolito (per il cinema italiano) film rivista che attraverso il filo conduttore delle vicende della famiglia del cantastorie napoletano Salvatore Esposito (Stoppa), ripercorre mezzo secolo di storia locale napoletana dal 1900 al post bellico (1945).
Insieme a poche altre pellicole dell’epoca, I pompieri di Viggiù (1949) Mario Mattoli, Luci del varietà (1950) Fellini-Lattuada, Viva la rivista (1953) di Enzo Trapani e Gran Varietà (1954) di Domenico Paolella, Carosello napoletano ha il merito indiscutibile di rappresentare un documento prezioso di un mondo scomparso, quello della rivista e dell’avanspettacolo, che fu una sorta di serbatoio inesauribile per il cinema italiano: fu il varietà ad ospitare gli esordi di alcune delle più grandi stelle del grande schermo a cavallo tra gli anni ‘40 e i ‘50: Totò, Walter Chiari, Vittorio De Sica, Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Renato Rascel, Erminio Macario.
Film come quello di Giannini hanno il pregio di testimoniare, grazie alla chiassosa predominanza dei movimenti di macchina (zoom in avanti e indietro, carrellate da un lato all’altro dello schermo come muovendosi nei confini fisici di un palcoscenico), delle scene di gruppo, balletti e festosi colori (fu girato in Pathecolor, la copia è in Technicolor dunque son in parte perdute le tavolozze infinite di colori volute dal regista), la spettacolarità effervescente e visiva che veniva dispiegata a teatro, per “distrarre” il pubblico dalle situazioni di indigenza e difficoltà quotidiane.
Non a caso alcuni degli elementi dominanti nel linguaggio cinematografico adottato da Giannini nel film sono riconducibili all’alveo teatrale, come scale e finestre. La pellicola si srotola in un continuo rimando modernamente metacinematografico, rilevando infiniti “incassi” di scena in scena, come in un gioco di scatole cinesi dove con liquidità si passa dalla più grande che ne contiene un’altra e poi un‘altra fino alla più piccina. Così da una finestra aperta su di una serenata, si passa ad un riquadro incorniciato per una cartolina di Saluti da Napoli, e da questa cornice a quella del vagone di un treno in partenza per il fronte. Di cornice in cornice la messa in quadro è utilizzata come un intarsio per cesellare l’immagine che vuole rappresentare Napoli e la sua storia, in tutta la sua ricchezza ricolma di rimandi e citazioni ad una cultura popolare fastosa: in 129’ Giannini è riuscito a mettere tutto l’oro di Napoli in un film, Carosello Napoletano è nu puparuolo ‘mbuttunato ripieno di pizza, mandulini, Pulecenella, corna, iatture, serenate, presepi e tarantelle. Astenersi dalla visione i non amanti del genere. Il timbro audacemente folcloristico del film potrebbe infatti causare una indigestione ai non adepti, anche se la regia di Giannini non cade mai in un registro dozzinale, grazie alla maniacale cura dei particolari con scenografie lussuriose (premiato a Cannes e ai Nastri d’Argento l’autore Mario Chiari), coreografie ambiziose (del grande coreografo russo Léonide Massine qui anche attore nei panni di Petito) e una fotografia capace di raccogliere l’eredità colta del vedutismo e raccordarla con l’accento più popolare della messa in scena napoletana.
Possiamo infine dichiarare a ragion veduta che Carosello napoletano sia l’unico film della produzione musicale italiana dei tempi a portare nel suo grembo il seme del musical americano e una certa ispirazione avanguardistica, a tratti, che sembra precorrere addirittura l’avvento dei videoclip (con Michelemmà e O’ surdato ‘nammurato e Maria Marì ) con la messa in immagini di celebri interpretazioni di Beniamino Gigli (O sole mio, Funiculi' funicula', Voce 'e notte e Marechiare), Carlo Tagliabue (Guapparia) e Giacomo Rondinella (primo interprete di Munastero ‘e Santa Chiara e Malafemmena) assai richiesto dal cinema per la sua avvenenza.
Lode dunque alla Cineteca di Bologna che ha restaurato la pellicola di un film annoverato tra i 100 film italiani da salvare segnalati dalle Giornate degli Autori all'interno di Venezia. Una celebrazione pura di quell’Ars Gratia Artis che campeggia fiera in numerose scenografie del film come pure nel logo della Metro Goldwyn Meyer. Probabilmente una strizzatina d’occhio di Carlo Ponti e della sua Lux Film all’amore per il cinema. Così come la presenza di Sofia Loren in un ruolo secondario che riflette la sua provenienza dal mondo della moda e della fotografia.