Le memorie dal sottosuolo d’America di Dawson City – Il tempo tra i ghiacci vivono soprattutto grazie al commento sonoro di Alex Somers, che va oltre il canonico accompagnamento, dando al montato un significato aggiunto non indifferente. Le melodie post-rock del leader dei Sigur Rós compongono un Requiem lisergico e sulfureo che diviene un tutt’uno con i film riemersi dalle fondamenta della cittadina canadese celebrata da Bill Morrison, centro della corsa all’oro d’inizio secolo, abbandonata qualche anno più tardi, una volta esauriti i filoni minerari.
Con lontani rimandi alle partiture lynchiane di Angelo Badalamenti, le distorsioni e gli altri effetti applicati da Somers ad archi ed organo su un tappeto di sintetizzatori spazializzano le immagini conferendo loro spessore. Le fotografie e il girato selezionato dal regista si aprono così a una dimensione altra, non solo quella tradizionalmente bidimensionale del fotogramma, né a quella in profondità del 3D. Si parla qui invece di un valore prettamente emotivo, suggestivo, come se quel “tempo ghiacciato” del sottotitolo originale avesse realmente salvaguardato la realtà impressa sulle pellicole. Come un carillon, il senso sommesso e letargico ricercato dal compositore dà così al pubblico la percezione di contemplare qualcosa di dormiente ma vivo oltre lo schermo, una sensazione di nostalgica malinconia che riaffiora dalle pieghe più oscure degli Stati Uniti.
Similmente le sonorizzazioni di filmati naturali e industriali conferiscono alle scene un tocco onirico e sinistro, quasi ci si trovasse davvero in una città fantasma di cui restano solo sparute tracce evocate dal mezzo filmico. “Quando l’elemento organico, fisico della celluloide (…) si insinua tra i sogni, ovvero le immagini impressionate sull’emulsione, ecco, è lì che si rivela il punto di passaggio, il cross-over tra il sogno e la realtà, tra la materia e lo spirito” (Bill Morrison).
Come già accaduto in passato con Michael Gordon (Decasia, 2002), Jóhann Jóhannsson (The Miners’ Hymns, 2011) o Bill Frisell (The Great Flood, 2013), il ruolo canonico di collante narrativo affidato dai documentaristi alla voice over, Morrison lo assegna alla musica, facendo così del found footage un vero e proprio moderno ready made cinematografico. Una rielaborazione del significante originale, attraverso cui dare “una visione olistica e affascinante della storia nordamericana” (Sophie Mayer).