Il sonno della ragione genera mostri, quei mostri dalle sagome indefinite e voci stridule che in Eraserhead – La mente che cancella acquistano una plasticità e forma sempre più rivoltanti, e altrettanto angusta diviene la capacità dello spettatore di seguire ogni accordo di tale disarmonia visiva e concettuale, ed ogni suo singolo afflato. David Lynch si innamora dell’idea per questo film nel 1971, e fino al 1977 non c’è stato altro cui pensare se non addentrarsi il più possibile in quel mondo ancora primitivo ed esservi fedele, ricucendo frammento dopo frammento, ossessione dopo ossessione. Nulla è ben definito, dai rumori di sottofondo ottenuti attraverso una miscela di suoni naturali, alle caratteristiche della scenografia, un vero e proprio ambiente onirico in tutte le sue componenti: presenza di oggetti dalle forme alterate, giustapposizioni paradossali e il repentino invasamento della madre di Mary X, nonché futura sposa del protagonista Henry Spencer. Se, tuttavia, esploratori dell’inconscio come Buñuel – il 1977 fu anche l’anno del suo ultimo lavoro Quell’oscuro oggetto di desiderio – o Zulawski con Possession, ricreano il riflesso o una semplice idea del teatro della propria coscienza, Lynch, in Eraserhead, arriva a una speculare riproduzione della condizione del sogno, in tutte le sue antitesi e contraddizioni. L’uomo vive circostanze differenti, ma l’impero della mente umana è lo stesso: le immagini di Eraserhead, queste presenze fantomatiche sottolineate dall’opacità dei colori grigi, quei grigi totali che non lasciano spazio ad altre sfumature o luci, evocano nello spettatore le medesime esperienze e cognizioni intuitive, quei simboli o archetipi sinistri propri dell’inconscio di ogni essere umano. Lo stesso regista affermerà che la bruttezza del bambino sarebbe una metafora delle sue paure nell’eventualità in cui divenisse padre: Henry, <<uccidendo>> il neonato, diventa un altro Saturno che divora i suoi figli, l’opera di Francisco Goya con cui Lynch condivide l’atmosfera d’inquietudine e vertigine conoscitiva caratterizzanti.
C’è del surrealismo nelle figurazioni e rappresentazioni lynchane, come anche del minimalismo scenografico e architettonico, ma specialmente della filosofia baconiana, propria di quel pittore che esprime tutto il decadimento e la brutalità della carne, serrando alcune opere (ad esempio Studio per ritratto di Innocenzo X) con una fitta rete di strisce tracciate verticalmente. Queste linee dissolvono una visione agevole della realtà nella dimensione ineffabile e spaventosa dell’inconscio; le linee attraverso cui si consuma l’urlo di Innocenzo X sono le stesse in cui i personaggi di Lynch si abbandonano ai propri deliri, dalle labbra serrate prossime allo scoppio di Henry Spencer al grido di terrore di Nikki\Sue in L’impero della mente per giungere infine all’agente speciale Dale Cooper nei suoi corridoi ultraterreni.