“Alive! It’s alive! It’s alive” (Vivo! È vivo! È vivo!). Rivedere la versione restaurata di Frankenstein Junior di Mel Brooks del 1974 sul grande schermo convince sempre più - caso mai lo si fosse dimenticato - che questo film è sempre vivo, un po’ come il suo immortale protagonista. Per i pochi che non hanno mai visto la pellicola, Brooks, rifacendosi al romanzo ottocentesco Frankenstein di Mary Shelley, ci presenta Gene Wilder nei panni del dottor Frederick Von Frankenstein, uno scienziato che torna con molto scetticismo sui passi e soprattutto nei luoghi dove il nonno Victor, tanti anni prima, aveva tentato la rianimazione di un uomo clinicamente morto. Ma una volta giunto al castello di famiglia in Transilvania, con l’aiuto del gobbo Igor (un Marty Feldman che è divenuto icona del film) e della bionda assistente Inga (Teri Garr), cambierà atteggiamento e deciderà di ripetere l’esperimento.
Dopo oltre 40 anni dalla sua prima uscita - e dopo le tante visioni che tramite tv, vhs e dvd hanno attraversato ormai generazioni - stupisce non poco vedere come i meccanismi narrativi, le battute, i tempi, le musiche, la fotografia, gli attori, tutto insomma funzioni ancora alla perfezione. Manca solo la sorpresa, perché ormai conosciamo tutto a memoria. Ma anche questa piccola mancanza è ripagata dal momento in cui pregustiamo quello che giò sappiamo accadrà. E che ci farà, per l’ennesima volta, morir dal ridere. Eppure Frankenstein Junior, quarto film di Mel Brooks e terzo in collaborazione con Gene Wilder (a cui si deve l’idea originale e la co-sceneggiatura firmata insieme al regista), è molto più di un film comico. Non è solo una parodia dei film su Frankenstein, in particolare quelli di James Whale, ma è una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema degli anni ’30. Quel cinema in cui Brooks, bambino americano di origine ebrea, amava perdersi, prediligendo i film d’orrore, quelli comici e i musical.
“I cinema di quartiere aprivano alle 10 di mattina, al sabato – ricorda Brooks – e io ero là”. E là rimaneva fino a quando, alla sera, la madre lo andava a ripescare nel buio della sala. Un omaggio che si respira fin dai titoli di apertura in eleganti caratteri gotici, dalla curatissima fotografia in bianco e nero di Gerald Hirshfeld (un bianco e nero per il quale Brooks e Wilder lottarono moltissimo contro la produzione che voleva il colore), dagli stacchi fra una scena e l’altra fino al riutilizzo delle stesse scenografie del laboratorio del Frankenstein originale della Universal.
Ma oltre all’omaggio cinefilo in Frankenstein Junior troviamo anche quello letterario a Mary Shelley. “Quel che fa di Young Frankenstein un intelligente film divertente – scriveva Morando Morandini nel 1975 – è la coincidenza tra qualità estetiche e morali. I suoi autori, infatti, non amano soltanto il cinema dell’orrore. Amano anche il mostro”. Ne è prova il tratto malinconico con cui il regista delinea la “creatura” così come la scelta della colonna sonora. Brooks non chiese a John Morris di comporre una musica spettrale, come ci si potrebbe aspettare in questo caso, ma una ninna nanna mitteleuropea che rievocasse il passato del mostro. Un mostro che si placa davanti alla musica ma che vien sopraffatto dal proprio demone, dal suo personale Dybbuk, in presenza del fuoco. Ma al di là del valore di un film che si è fatto culto, rivedere Frankenstein Junior in versione originale e sul grande schermo ci pone davanti anche ad un’esperienza di fruizione nuova, che ci permette di comparare la versione dei dialoghi in inglese con quella in italiano a cui siamo per lo più abituati.
Il film, curiosamente, ebbe una buonissima accoglienza nei paesi anglofoni ma non nel resto del mondo, tranne in Italia, dove riscosse grande successo di pubblico. Questo grazie anche al lavoro di traduzione prima di Roberto de Leonardis e poi di Mario Cidda (conosciuto come Mario Maldesi) che per l’uscita in lingua italiana adattò con estrema attenzione tutti i giochi di parole e le assonanze originariamente presenti nella sceneggiatura, a volte modificando radicalmente alcune battute, in un modo però assolutamente fedele e in linea con lo spirito del film. Ad esempio il gioco di parole mimato intorno al termine sedative da “Seda-give” diventa “Seda-davo”. L’esclamazione del dottor Frederick durante il black out nel castello “Damn your eyes” a cui Igor, indicandosi l’occhio, risponde “Too late” si trasforma in “Ma è un malocchio questo!” con Feldman che ribatte “E questo no?”. Il citatissimo “Si -può-fare!” nasce dal corrispettivo “It –could –work!”. Ma la citazione più famosa, quella che tutti ricordiamo, è dovuta all’assonanza tra werewolf (lupo mannaro) e where wolf? (lupo, dove?) che fa nascere la risposta, tutto sommato non esilarante, “There wolf. There Castel” (Lupo lì. Castello là). Maldesi ebbe qui una felice intuizione e con un gioco di parole non sense diede vita all’impareggiabile “Lupo ululà, castello ululì”.