L’epica ritrovata: si potrebbero riassumere così le proiezioni che ieri sera hanno coinvolto, emozionato, entusiasmato il pubblico in Piazza Maggiore di fronte a due capolavori assoluti: il Prologo de La Roue di Abel Gance (1923), anticipazione del restauro condotto dalla Fondazione Jérôme Seydoux-Pathé che vedremo integralmente nel 2019, e forse il più celebre dei film meno visti della storia del cinema, La corazzata Potëmkin del maestro Ejzenštein (1925).
Si dice che l’epica, non solo come modo di narrazione, ma soprattutto come esperienza, appartenga all’epoca antecedente la modernità: quei tratti di unicità, di totalità, di poeticità che ne costituiscono i tratti essenziali verrebbero meno con la frantumazione psichica della vita urbana, contemporanea, con l’isolamento dell’individuo che perderebbe un senso di appartenenza nei confronti di una comunità.
E se questo pare confermato nel nostro mondo contemporaneo, in cui ciascuno sembra prestare attenzione solo al singolo schermo del proprio smartphone, tuttavia ci sono (e viene da dire – con un sospiro di sollievo – per fortuna) ancora momenti in cui ci si può raccogliere di fronte ad un altro schermo, quello “grande” (in tutti i sensi) del cinema e respirare, trepidare sulla sedia, applaudire, alzarsi in piedi di fronte alla forza magnetica di immagini che sono sublimi proprio perché fanno sì che ogni spettatore percepisca la potenza energica che esiste al di fuori di sé.
La Roue è stata un’anteprima in tutti i sensi: oltre a fungere da introduzione in quanto prologo del complesso di materiale che costituisce il corpus integrale del restauro (per un ammontare complessivo di otto-nove ore di visione), la sonorizzazione musicale di ieri sera ha recuperato la composizione di Arthur Honegger che non veniva messa in scena dal 1923. L’orchestra della filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha accompagnato il montaggio caleidoscopico dei filtri rossi, gialli, blu in cui si dipana una storia della modernità, in cui corpo umano e meccanico collidono nell’incidente ferroviario, in cui i volti tragici delle donne che fuggono dalle macerie si fanno fantasmi che escono dal fumo, per poi ritrovarsi definitivamente de-umanizzati nella bambola con cui la piccola Norma, rimasta orfana nell’incidente e presa sotto l’ala protettiva del meccanico Sisif, riproduce, come in un gioco perturbante, l’incidente. La Ruota diventa simbolo di un’unità collettiva sotto cui si ritrovano tutti i sentimenti umani: la tragedia (la ruota del treno che deraglia), la speranza (Sisif trova una sorellina per il proprio figlio) e l’eterna casualità (come dice il tableau di chiusura, la ruota, quella della vita, gira sempre).
Ma l’evento della serata è stato indubbiamente la proiezione del film di riferimento del maestro russo del montaggio, introdotto da un lucidissimo Naum Kleiman, probabilmente il massimo esperto mondiale di Ejzenštejn, fondatore del Centro Ejzenštejn di Mosca di cui è stato il direttore fino alla sua destituzione nel 2014 da parte del governo Putin. E durante la proiezione si è presentificata quella che Benjamin ha definito Erfahrung, quella dimensione collettiva, unica, secondo il filosofo tedesco, a poter essere considerata veramente “esperienza”. Tutti abbiamo guardato con orrore i vermi della carne putrida sul Potëmkin, così visivamente simili ai marinai che da una parte all’altra del pontile cercano di scappare dall’agguato tesogli dagli ufficiali. Abbiamo partecipato con intensità alla rivolta e con compianto all’uccisione dell’ispiratore degli animi. Abbiamo guardato con apprensione e sdegno al massacro della scalinata di Odessa, in cui l’attenzione ai dettagli dei volti, portatori di un’umanità sincera, si alterna freneticamente al movimento convulso della folla che scappa, degli scalini che si fanno cimitero a cielo aperto.
E alla fine, quando il martellare della musica sincopata (composta nel 1926 da Edmund Meisel) magistralmente eseguita dall’orchestra bolognese e diretta da un Helmut Imig in stato di estasi ha trascinato il pubblico nell’apprensione per il possibile scoppio di una guerra per mare, eccola, la catarsi: all’urlo muto di “Fratelli!” la melodia si distende, la bandiera rossa svetta sulla cima e il pubblico scoppia in un applauso di pura e spontanea liberazione, cui solo la standing ovation finale può stare alla pari.
Il potere delle immagini in movimento è anche questo: poter parlare, a quasi un secolo di distanza, ad un pubblico che ha bisogno ora, forse più che mai, di narrarsi attraverso una nuova epica collettiva.