Assistere alla proiezione di Lucciola oggi, pellicola datata 1917, è un’esperienza quantomeno originale e sicuramente formativa, se si guarda a questo film con tutta la riverenza e la soggezione dovuti ad un essere centenario. Infatti il valore di testimonianza, di documento, in senso storico, che la pellicola assume agli occhi del suo spettatore moderno, è a dir poco inestimabile.
Lucciola è un film che possiamo classificare come dramma, a causa del suo finale tragico (la protagonista muore accoltellata), ma che ci strizza l’occhio in diverse occasioni nello svolgersi dei suoi 82 minuti, con momenti di pura e spesso fisica comicità, elargita come irrefrenabile istinto da parte dei personaggi del film: i saltelli di gioia di un corteggiatore grassottello, la disperazione di un altro espressa con il gesto di “strapparsi i capelli” pur essendo calvo, e infine la manifestazione dell’ atavica fame della trovatella Lucciola che riceve come omaggio da un “amoureux” una torta gigante accompagnata dall’ ironica didascalia “per lo stomachino di Lucciola”, della quale taglia un pezzettino, per accennare a divorare il resto. Espressività del muto o ammiccamenti comici? Sottile la linea di demarcazione tra i due significati.
Infiniti sarebbero anche gli spunti per uno studio sociale sui personaggi chiave del film: la povera orfana in cerca di amore (e protezione) [non sarà casuale la scelta del nome Lucciola per indicare la sua sorte di animale notturno?] il ricco pittore “viziato” e avvezzo ad usare le donne come oggetti decorativi del proprio tableau vivant, il povero Cencio malfattore, la ricca e sdegnosa Contessa di Carasco, che finisce per far la parte della cattiva. Un mondo popolato da un predominante e prepotente ego maschile, che non lascia altro spazio di esprimersi al femminino se non per il tema della bellezza, della debolezza e dei sospiri d’amore. Il mondo di 100 anni fa. O almeno si spera che oggi qualcosa, nella radice delle nostre dinamiche umane, sia effettivamente mutato e che non si tratti solo di una questione di gender.
Infine, da un punto di vista strettamente fotografico, è sicuramente consigliata la visione del film di Genina a chi non ha mai assistito alla proiezione di un film imbibito. Ci si scopre stupiti a guardar sullo schermo come un bambino che spia il mondo dalla prismatica ottica di un caleidoscopio. La magia dello schermo muto, ma colorato, è un regalo che proprio la Cineteca di Bologna fece ai suoi spettatori qualche anno fa (edizione 2005 del Cinema Ritrovato) riportando alla luce alcuni cortometraggi restaurati con un procedimento che ritrova la luminosità delle aniline (coloranti concentrati in polvere che vanno disciolte in acqua) ripescandola direttamente dagli originali. Infatti nei suoi primi trent’anni di vita il cinema fu a colori, o meglio colorato fotogramma per fotogramma, anche se lo avevamo “dimenticato”.
Non per niente la casa produttrice del film fu proprio la Ambrosio, una delle pochissime, insieme a Cines e Film d’Arte Italiana ad adottare un metodo automatico di colorazione che sostituì quello manuale dal 1906 in poi. E così lo spettatore, oltre che godere della storia narrata, e dell’accompagnamento musicale, aveva occasione anche di sobbalzare ogni qual volta lo scenario cambiava colore: il blu per il notturno e marino, il rosso per la passione e la fame, un virato seppia per gli esterni giorno o i treni a velocità. Un espediente narrativo non da poco, se consideriamo che una pellicola imbibita aveva un costo maggiorato di circa il 50% in più rispetto al monocromo, ma era in grado di entusiasmare in modo eccitante il suo pubblico con improvvise e pirotecniche esplosioni di colore.