I suoni e i rumori di scena creati da David Lynch per Eraserhead mettono a dura prova lo spettatore e, da elementi vibranti e riproduttivi (di una realtà filmica di per sé cacofonica e ottundente), si insinuano nella materia organica rigettata a fiotti sullo schermo, sospesa a mezz’aria, in escrescenza, tra luce e ombra, in lenta putrefazione. Questo susseguirsi di mutazioni aveva iniziato a prendere forma già nei primi corti: Six Men Getting Sick, The Alphabet e The Amputee; nel mezzo, tra larve infette e misteriose apparizioni, compariva anche la prima dea salvifica dell’universo in consunzione: la nonna germinata dalla terra, riconnessione emotiva tra il mondo e i suoi abitanti. Era The Grandmother, eravamo nel 1970. Sette anni più tardi Eraserhead.
Il primo lungometraggio di Lynch genera un alfabeto iconografico e sonoro che da parzialità mistica – partorito da un misterioso frammento della Bibbia – diventa unità cristallizzata in un tempo senza tempo, con una nuova figura femminile che “move il sole e le altre stelle” intonando la celestiale In Heaven. La rappresentazione degli orrori surreali e dei rigurgiti industriali nella storia dell’impacciato Henry – padre di una deforme creatura e marito di una donna epilettica attorniata da una famiglia disfunzionale – non conosce durata, perché è la mente che tiene insieme i brandelli dell’incubo domestico precipitato da un abisso siderale in un pianeta sconosciuto fatto di rocce e anfratti.
Eraserhead è cinema del passaggio, dell’interstizio inabitabile attraverso cui sono inoculati mostri e deformità; un “demone sotto la pelle” di un universo sconosciuto il cui suono sinistro spazia, attraverso influenze noise e industrial, dal fastidioso al perturbante. La misofonia genera una risposta fisiologica ed emotiva perché nella pittura di Lynch, che pretende ascolto, non esistono suoni neutrali. In questo microcosmo raggelato e deforme, il sogno americano imputridisce nell’inconscio, mentre ogni forma d’amore svanisce per lasciare il posto ad una meccanica riproduttiva a getto continuo: umori sparsi ovunque, liquami zampillanti per ogni dove. Così il latrato di un cane, un semplice cortocircuito elettrico, il continuo lamento della creatura e il rumore della fabbrica che invade anche lo spazio domestico, non sono che amplificazioni astrali di un universo sospeso tra allucinazione e follia in cui l’immagine, sfuggente e priva di centro, diventa un pianeta senza orbita su cui imbastire un teatro degli orrori sonori e visivi.
Tra vita che nasce e vita che si rifiuta di morire, basti pensare al pollo servito ad Henry che zampilla ancora sangue vivo, lo spettatore assiste alla (ri)generazione della carne che conduce all’apertura di un disarmonico e dissonante maelstrom infernale nelle nostre menti che “non cancellano”.