Fa ancora una certa impressione riscoprire il poker sfoggiato da Max Ophüls nel suo prematuro finale di partita. Quattro carte imbattibili per il ritorno in Europa dopo una mano giocata oltreoceano, talmente grandiosa da poter essere racchiusa in un titolo: Lettera da una sconosciuta. Tra il 1950 e il ’55, Ophüls vola altissimo, un crescendo irresistibile che suscita tuttora una clamorosa, incontrollabile, irripetibile vertigine.
Prendiamo I gioielli di Madame de… e chiediamoci: come diavolo è riuscito a raccontare con tanta spregiudicata e spietata modernità un universo così ingabbiato nei suoi riti da essere quasi inaccessibile ai posteri? D’accordo che il titolo è lo stesso del romanzo di Louise de Vilmourin, ma ammiriamo in quanti modi diversi viene messa in scena la reticenza sul cognome della coppia: lo starnuto provvidenziale, il vuoto di memoria, l’autocensura, l’allusione maliziosa. Accettando questa elusione tipica di una certa letteratura disponibile a parlar di tutto purché l’onore del ceto raccontato fosse salvaguardato da una velatura sotto forma di asterischi (ah, le code di paglia!), Ophüls si cala nella visione del mondo di una società “superficiale in superficie” ben rappresentata dal terzetto di protagonisti.
I gioielli di Madame de… si presta anche ad una riflessione sullo star system dell’epoca. È naturale che la divina Danielle Darrieux domini tutto fino a diventare icona di una disperata vocazione al fatuo e al nulla, implacabile civetta che flirta col destino, bugiarda anche quando parla con se stessa allo specchio, col volto spesso coperto da velette. Eppure la sua immagine fatale si rafforza proprio in virtù dei suoi partner: Charles Boyer, il divo europeo diventato americano dopo anni trascorsi ad incarnare il prototipo del maliardo francese; e Vittorio De Sica, che, nello stesso anno di Pane, amore e fantasia, sembra riassumere la sua carriera, con un’eleganza in continuità con gli anni Trenta e addirittura, alla festa in maschera, una toga che ricorda Il processo di Frine. L’uno è sempre in uniforme, convinto che il matrimonio si regga su principi aziendali e camerateschi; l’altro è l’avventuriero romantico, storico ruolo di Boyer.
Maestro della composizione, incapace di restare fermo, Ophüls orchestra con perfidia e classe, raggiungendo uno zenit nella sequenza del “ritorno a casa degli orecchini”: De Sica è rialzato su uno scalino, di fronte a lui c’è Darrieux e dietro incombe il quadro a figura intera di Boyer. Una triangolazione memorabile, che sottolinea la sensibilità geometrica di un regista affascinato dagli schemi (la sagoma in profondità di De Sica alla stazione, le candele della chiesa come una litografia, il “13” che rifulge tra i numeri del tavolo verde…) per sovvertirli da dentro. Uno spirito che trionfa nelle sessioni danzanti degli amanti, rese fluide al punto da sembrare un unico ballo infinito, coreografia di un ipotetico amplesso e in realtà parodia involontaria del mélo che stanno vivendo.