Al suo esordio cinematografico, Louis Malle affronta la variazione noir sul tema degli star crossed lovers con un’inedita attenzione per il malessere esistenziale e il disagio generazionale. Temi che collocano Ascensore per il Patibolo, nel ’57, fra i precursori della Nouvelle Vague – amplificando la risonanza fra i microcosmi dei protagonisti, divisi dal caso e intrecciati dalla fatalità – stretti alfine in un ultimo nodo, sullo sfondo di una Parigi insolitamente cupa, surrogato artificiale di una natura matrigna invisa alla felicità.
Forse aveva ragione Aristotele, a ravvisare il fondamento della compassione nel terrore di scoprire le nostre tragedie nelle tragedie dell’Altro: è la struggente meditazione su Amore e Destino il cappio vellutato stretto attorno al collo dello spettatore, il filo rosso che avvince i polsi alla poltrona e giunge le mani in preghiera per una felicità che, si sa da subito, non può essere concessa. La Zweisamkeit di Julien e Florence costituisce infatti il corpo della suspence – la bolla di silenzio che avvolge i due amanti, oltre lo spazio e il tempo, autentico teatro del dramma che si consuma. Il film si apre con la loro telefonata: “la”, perché sarà l’esperienza più prossima a un autentico contatto che i due potranno esperire. Hanno già concertato l’omicidio del marito di lei, un magnate del traffico armi, boss di lui, ex paracadutista reduce dall’Indocina. Tutto è pronto, ma un’inezia – il battito d’ali di una farfalla – porta Julien a rimanere intrappolato in ascensore, nel tentativo di cancellare una prova. Florence lo attende al solito bar…sarà una notte piena di imprevisti.
La guerra a cui lui è riuscito a sfuggire non perdona; e l’intera vicenda non sembra che essere una protesi di quella bulimìa distruttiva. La terra madre, perso il suo posto al sole, e sfoga i propri appetiti antropofagi sui figli, siano essi colpevoli o meno. Véronique e Louis, i giovanissimi deuteragonisti, pur nella loro inconsapevolezza sembrano sapere – la loro candida follia è in fondo lo stigma di una storia sporca di sangue. Non è un caso che il furto dell’auto di Tavernier li conduca a millantare di averne preso parte, in un incontro ricco di implicazioni con una coppia di tedeschi – che pure l’hanno conosciuta e rimossa.
Il caso è un dio con le mani da macellaio: dio è tutto ciò che ci sorpassa, su cui non ci è dato trionfare. Non ci si può non simpatizzare con dei soccombenti – con il tragico stoicismo di Julien, segregato al buio in una cabina d’ascensore, luogo antitetico eppure perfettamente equivalente ai vuoti sterminati degli Champs-Élysées attraverso cui Florence si trova a vagare nottetempo, più savia di dolore che folle: soltanto un’altra scatola vuota, un contenitore più grande in cui lasciarlo rimbombare. L’esecuzione di Miles Davis, improvvisata durante la visione del film, è un miracolo sgorgato dal lago del cor. Pura cristallizzazione musicale dell’angoscia di sentirsi smarriti in un mondo di silenzio, alla ricerca dell’unica persona che potrebbe restituire un senso a quello spazio: la metropoli dissolta nella sensazione di non vivere nemmeno più in un mondo fisico, non riuscir più a distinguere il desiderio dalla disperazione.
Dal lirismo di questo intreccio di prospettive scaturisce la più riposta autenticità di una passione grandiosa nella sua laconicità, la sapienza di un amore che non si rassegna a cercare nella morte la propria risoluzione –
“Lì siamo insieme, là da qualche parte riuniti. Tu sai bene che nulla ci può separare.”
Thi Hòa Evangelisti