All’ombra di Palazzo Re Enzo, in collaborazione con il bar “La Linea”, si sviluppa l’appendice libraria del Cinema Ritrovato: con il nome di Otto libri sotto le stelle, la rassegna dà spazio agli oggetti librari cinefili di recente pubblicazione, talvolta in collegamento con le proiezioni in sala del festival. Sotto il segno del cinema d’autore italiano, il primo happening – coordinato da Paolo Mereghetti – è stato dedicato alla presentazione de Il mio Antonioni, curato da Carlo di Carlo, sfortunatamente scomparso nel 2016. Tramite un complesso lavoro mosaicale, il regista bolognese (nonché assistente di regia per alcuni film di Antonioni e Pasolini) aveva provveduto a fornire una personale elaborazione della figura del regista ferrarese, estrapolando le sue parole da scritti e interviste e assemblandole nel libro.
Come i futuri lettori noteranno, il libro appare come tripartito: se la prima parte approfondisce le vicende personali di Antonioni, a partire dai ricordi infantili, la seconda e la terza vengono dedicate all’analisi dei film realizzati o incompiuti. Dopo la scomparsa dell’autore, fondamentale è stato il lavoro di Lorenzo Cuccu, docente di Storia del Cinema all’Università di Pisa, il quale ha ricostruito filologicamente le fonti utilizzate da Di Carlo. A seguito della presentazione, abbiamo avuto la possibilità di intervistare il professor Cuccu, discutendo e approfondendo le coordinate dell’oggetto librario.
Può spiegarci come è stato contattato per la perizia svolta sul libro di Di Carlo e come ha impostato il suo lavoro?
Dunque, sono stato contattato da Giorgio Gosetti, che conosco da molto tempo e che era anche amico di Carlo: al telefono mi ha parlato del libro, che Di Carlo – già scomparso – avrebbe voluto pubblicare col titolo di “Antonioni: un’autobiografia possibile”. Tale operazione aveva trovato la contrarietà di Enrica Fico (ultima moglie di Antonioni), proprio a causa del titolo e in quanto lei non era d’accordo con la ricostruzione fatta; sapevamo per mezzo degli avvocati che la Fico avrebbe avuto l’ultima parola, nonché il diritto di veto sulla pubblicazione. Tuttavia, c’era la volontà, da parte dell’Istituto Luce Cinecittà e della Cineteca di Bologna, di portare l’opera alla pubblicazione: così ho incontrato Enrica ad Orbetello (ci conoscevamo già, in quanto eravamo stati assieme a Carlo e ad Antonioni in Portogallo e a Cannes) e le ho comunicato la mia intenzione di fare un lavoro di perizia filologica, ricostruendo le fonti, riga per riga. Mi sono sentito dire: “Ti rendi conto che ci vorranno almeno due anni di lavoro?”. Ero convinto che ci avrei messo un mese, ma sono stato ottimista: ci ho impiegato tre mesi, ma ad un certo punto ero disperato, in quanto alcuni scritti erano praticamente introvabili. Per fortuna, la Cineteca conservava tutto il materiale su cui Carlo aveva lavorato: quindi mi sono portato a casa i faldoni, al punto che ora non c’è più nemmeno una riga del libro che non abbia indicata la fonte. Il libro è stato intitolato Il mio Antonioni, in quanto Enrica era assolutamente contraria al format dell’autobiografia: il nuovo titolo chiarisce la visione dal punto di vista di Carlo. È stato pubblicato prima in inglese, presentato al Museum of Modern Arts di New York nel dicembre 2017, e in seguito tradotto in italiano.
Eppure, ci sono dei materiali inediti utilizzati nel libro. Ad esempio, l’epistolario con la prima moglie, Letizia Balboni.
Le lettere a Letizia Balboni erano inedite: lei le lasciò a Carlo, senza che nessun altro le avesse mai lette. Sicuramente Carlo ha espunto i passaggi più privati e meno importanti per l’analisi biografico-cinematografica. Le lettere a Letizia illuminano il periodo della formazione di Antonioni, la sua permanenza in Francia, l’incontro con Carné e Magritte: tutto ciò emerge solo da quelle epistole. Però mi interessa sottolineare, come ho fatto durante la presentazione, che il libro – a mio parere – non è curato da Di Carlo, ma è direttamente di Di Carlo: le parole saranno di Antonioni, ma la ricostruzione e il ritratto fornito è quello di Carlo.
Lei, quando ha posato gli occhi sul libro di Carlo, si è trovato di fronte ad una cernita che lui aveva operato sulle frasi di Antonioni. Da studioso del regista ferrarese, c’è qualcosa che magari avrebbe sviluppato in maniera differente?
Non tanto questo: forse io direttamente non avrei fatto una cosa di questo genere, prendendo le parole di Antonioni e rimontandole. Non credo che il libro abbia un interesse prettamente scientifico: la Marsilio aveva già pubblicato gli scritti di Antonioni, a parte i pochi inediti. La qualità del libro, secondo me, sta nel fatto che da quelle pagine esce una narrazione: come un romanzo in prima persona, raccontato con le parole del protagonista, alle spalle del quale si colloca Carlo, il vero narratore. Le riflessioni antonioniane sul cinema sono già note, ma proprio quel tipo di montaggio ne costituisce la novità e il fascino. Si legge in maniera scorrevole, proprio perché ci voleva una conoscenza prodigiosa per ricollegare nella stessa frase parole prese da tempi e testi diversi, facendo credere che siano parte dello stesso testo. Solo Carlo, con la sua conoscenza, poteva farlo.
Nell’espressione del pensiero di Antonioni, ha rilevato alcune contraddizioni, o mutamenti d’idea?
No, contraddizioni non ce ne sono: sicuramente c’è uno sviluppo nella riflessione di Antonioni sul cinema, da giovane aveva alcune considerazioni che poi sono mutate. Il giudizio su Marcel Carné, per esempio, è peggiorato negli anni, abbastanza palesemente. In quel caso, Antonioni era stato esplicito: gli era stato commissionato un articolo su Carné e – una volta morto l’autore francese – ha aggiunto una postilla, ridimensionando molto il suo giudizio. Al di là di ciò, si erano reciprocamente antipatici, come emerge alle lettere a Letizia. Carné lo trattava male, non lo considerava: Antonioni era stato preso come suo co-regista, invece il regista francese l’ha trattato come fosse l’ultimo arrivato.
"Quando sono arrivato a Parigi, era una domenica, pioveva. Un giorno triste, una città che mi ha fatto un’impressione tremenda, era la prima volta che la vedevo. Sono arrivato in un teatro di posa, vuoto: soltanto una piccola troupe che girava in un teatro enorme. Solo in un angolo, una piccola costruzione e Carné che girava. Appena mi vide mi voleva mandar via: 'Chi è quel tale? – gridava – vada fuori!'. E io: 'Ma guardi, io sarei quel tale mandato dalla Scalera, coproduttrice del film'. Avevo in tasca un contratto per la co-regia del film, cosa della quale mi sono ben guardato dal comunicargli. Non potevo dirgli: “Guardi che io conto quanto lei”, me ne vergognavo, sarebbe stato ridicolo. Mi limitai a dire che mi mandava Barattolo per fargli da assistente. Carné protestò un po’, poi disse: 'Ah, va bene, ho capito, d’accordo: lei ha gli occhi e allora guardi!'. E poi se ne andò. Questa fu l’accoglienza" (citazione dal volume, pp. 60-61).
Un pregio del libro è che vi si può approcciare sia uno studioso che già conosce Antonioni, ma anche un lettore non propriamente cinefilo. La prima parte sembra fatta proprio per calarsi nel mondo personale di Antonioni, con anche una buona dose di aneddotica. A questo proposito, volevo chiederle se c’è stato qualche aspetto del regista che l’ha sorpresa o che ha rivalutato?
Sicuramente non c’è stato nulla che mi abbia portato a modificare il mio approccio su di lui, in quanto non ho trovato novità dal punto di vista della sua idea di cinema. Mi ha sorpreso molto la parte dedicata al rapporto con Visconti, perché pensavo addirittura che ci fosse un astio tra loro. Invece viene fuori che Antonioni covava per Visconti un forte affetto e una stima altissima. Pensavo non fosse così, anche perché, nell’episodio de Il lavoro, diretto dal regista milanese (all’interno del film a episodi Boccaccio ’70), il protagonista maschile si presenta con due cani, i cui nomi sono Michelangelo e Federico, chiari riferimenti ad Antonioni e Fellini. Invece, per quanto egli fosse più tiepido nei confronti di Fellini e di altri registi, parla di Visconti come di un grandissimo regista.
"Se penso a lui, le prime immagini che affiorano nella mia memoria: Lucino magro e tenebroso in quel caffè di via Veneto, la prima volta che lo vidi. Luchino sulla spiaggia di Ostia. Luchino a casa sua tra i suoi oggetti. Luchino in sala di proiezione, mentre guarda il Reporter e io guardo lui per capire se gli piace. Luchino malato su una sedia a rotelle nel soggiorno della sua ultima casa romana che mi dice: vieni qua, Michele, abbracciami" (citazione dal volume, p. 89).