Negli anni Quaranta, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il cinema hollywoodiano si schiera in prima linea con opere di spirito propagandista a sostegno dell’intervento bellico, in nome di quei valori di pace, libertà e uguaglianza di cui l’America si è sempre fatta promotrice. Uno dei lavori più interessanti di questa produzione è Il soldato negro di Stuart Heisler, scritto dall’autore nero Carlton Moss e rivolto esplicitamente al pubblico afroamericano, il cui intervento bellico è rappresentato come ideale prosecuzione del contributo storico dato dal popolo black alla crescita del Paese. Il film ha il merito di essere uno dei primi a rappresentare fieramente le truppe nere, ma come la maggioranza delle pellicole bianche di quei anni su temi analoghi, la visione che offre della coeva questione afroamericana è solo parzialmente veritiera ed esclude volontariamente le questioni più scomode e spinose.
Costruito come un sermone, in cui un predicatore (interpretato dallo stesso Moss) esorta i fedeli a combattere il razzismo nazi-fascista, in nome di quella libertà che ha permesso il progresso e l’affermazione nera in diversi contesti professionali, l’opera di Heisler manifesta una discutibile e inquietante concezione della religione. L’uso distorto della Parola era pratica già impiegata dai padroni per legittimare lo status quo e persuadere gli schiavi che la salvezza dell’anima passasse necessariamente attraverso il dolore e la sofferenza del corpo. Così il prete nel film, che trova la ragione morale dell’entrata in guerra in un estratto dal Mein Kampf in cui Hitler condanna la borghesia americana e il contributo dato all’evoluzione socioculturale dei neri, non si discosta di molto dal modello cinematografico dello Zio Tom, tanto asservito alla causa bianca da non rendersi conto della contraddizione in essere che egli stesso incarna. Nero di fede cristiana che incita i propri parrocchiani a combattere contro il nemico, per ragioni loro negate su suolo nazionale. Infatti, l’America che si erige paladina dei valori più nobili del genere umano, in patria ancora non riconosce tali princìpi a tutti i suoi cittadini, considerando ancora una parte di essi poco più di niente.
Si evidenzia allora, ad esempio, l’eroismo di Crispus Attucks e altri valorosi neri della guerra d’indipendenza e di secessione, senza ricordare che questi erano stati prima schiavi. Si elogia l’eroismo dei black soldiers, ma non si fa cenno alcuno alla segregazione di cui erano vittime anche nelle forze armate. Si celebra il progresso di alcuni fratelli e sorelle nei campi della cultura, delle scienze e dello sport, tralasciando però i reietti, dimenticati da una società che preferisce voltare loro le spalle piuttosto che adoperarsi in nome di un benessere eguale e condiviso.
Sono queste le dissonanze che proprio in quel periodo iniziano a formare una nuova coscienza nera che troverà la sua massima espressione negli anni Sessanta, coi movimenti per i Diritti Civili e i due leader storici Martin Luther King jr. e Malcolm X. Due facce della stessa medaglia: la consapevolezza di essere stati, sempre e comunque, pilastri mai riconosciuti tali del sogno a stelle e strisce, senza i quali l’immagine che l’America ha dato di sé, non sarebbe potuta essere la stessa. Solo Spike Lee con Miracolo a Sant’Anna e il recente Da 5 Bloods, ha saputo raccontare efficacemente questo conflitto interiore dal punto di vista dei soldati afroamericani, e come dimostra il finale del suo ultimo film, la meta non è ancora raggiunta.