Il più giapponese dei registi nipponici. Così è stato definito in occidente Yasujiro Ozu, forse per distinguerlo dal suo più celebre allievo, Akira Kurosawa, giudicato più vicino al gusto estero. Come spesso accade, le categorizzazioni si rivelano fuorvianti e Inizio di primavera lo dimostra. Proseguendo su due binari paralleli, come già avveniva nei suoi due film precedenti (Il sapore del riso al tè verde, Viaggio a Tokyo), Ozu indaga sui mutamenti della società e del costume giapponese e contemporaneamente analizza i rapporti umani partendo dal nucleo familiare.
Poggiando sul perno narrativo della relazione clandestina fra un impiegato sposato e una sua giovane collega, il film si apre come un ventaglio, toccando alcuni nodi cruciali della vita tra cui il lutto, la malattia, l’attesa di un figlio, la condizione lavorativa, la separazione e la riunione. Partendo quindi dal microcosmo della città di Tokyo, porta a compimento un racconto della vita colta nella sua accezione più universale. La figura dell’impiegato viene eretta a simbolo della modernità, di una società che cambia, si modernizza, assimila usi e costumi di un’altra cultura (quella americana delle forze d’occupazione).
Ozu racconta tutto questo con il suo stile contemplativo, che rinnega facili sensazionalismi emotivi e situazioni melodrammatiche. Forse è proprio in questa apparente freddezza che la critica vide del “giapponismo”. Il film più lungo della carriera del regista procede lentamente, con sequenze fatte di piccoli spostamenti d’accento invece che di colpi di scena, rendendo la macchina da presa innanzitutto un fenomenale strumento d’indagine. È uno stile preciso e calcolato, che quasi abolisce i movimenti di macchina per concentrarsi sulla composizione plastica dell’inquadratura, spesso ricca di dettagli e profondità.
Il ritmo del film è dato dal gioco di linee e volumi, dal taglio dinamico interno ad ogni singolo fotogramma. Il lato emotivo dell’opera è invece affidato ai primi piani, in cui spesso, durante certi dialoghi, i personaggi guardano quasi in camera, come a voler scappare dallo schermo e interpellare direttamente lo spettatore. Inizio di primavera è quasi un manuale di cinema, una lezione come la qualità di un regista non risieda nei mezzi che ha a disposizione, ma nella sapienza con cui vengono usati.
Ozu posiziona la macchina da presa un po’ più in basso dei suoi personaggi, con un’angolazione particolare lungo le diagonali e, nelle numerose sequenze in interni, decide di inquadrare gli ambienti dall’esterno di essi, approfittando di porte e finestre aperte per dilatare enormemente lo spazio, conferendogli una tridimensionalità degna delle migliori profondità di campo. Il più giapponese dei registi? Forse, ma, a contatto con questi personaggi fin troppo reali, nella Tokyo di Ozu ci si sente sempre a casa.