Quando uscì Inizio di primavera (1956) Ozu era inattivo da tre anni. Possono non sembrare molti, non era nemmeno la prima volta che lasciava passare del tempo, ma era successo durante gli anni della guerra e parliamo di un cineasta benvoluto dall'industria e dal suo pubblico, abituato a girare a tempo di record da uno fino anche a cinque film l'anno. Si tratti di un caso o dell'aver allentato la catena a un talento ormai maturo e tenuto in stallo, il film è il più lungo fra i suoi trentasette superstiti. 144 minuti di urgenza e densità tali da rischiare di confondere le acque, come un oggetto che sfoca per l'eccessiva vicinanza all'occhio.

Ad esempio, ci viene fatto notare durante la presentazione, colpisce l'assenza dei bambini. In Ozu è vitale l'universo dell'infanzia come riposo edenico, luce positiva sui valori tradizionali, anticamera di un mondo gerarchico e burocratizzato che si cerca invano di tenere a distanza prolungando l'illusione. Film come Sono nato, ma... (1932) raccontano di come un bambino spogli dolorosamente la figura paterna della sua aura man mano che ne emergono il compromesso e la sottomissione nei rapporti coi superiori, passando dall'adorazione allo sdegno fino a una tremenda rinuncia.

Oppure il regista isola il problema in singole figure di eterni bambini 20-25enni, che popolano i suoi primi gakusei-mono ("film di studenti") con tutto un campionario di rituali del rifiuto e del disimpegno. In Inizio di primavera mancano sia il respiro di un contrasto dialettico fra parti che questo genere di lotta interiore. I protagonisti fanno parte delle centinaia di migliaia di impiegati di una fabbrica di mattoni, vanno al lavoro come file di automi in completo nero, stretti in un vagone e poi sfilando a passo regolare per le strade di Tokyo. Non più bambini, non ancora padri di famiglia. Giovani ma già al di là della linea d'ombra.

“Un quesito infantile emerge ogni volta che si parla di Ozu: si tratta di un realista o di un formalista?” osserva Jonathan Rosenbaum, concludendo che “forme sociali e forme cinematografiche sono nel suo caso del tutto inscindibili”. Il rigore geometrico e il battito metronomicamente regolare sono la prigione insensata della maturità. E Inizio di primavera sta fra gli esiti estremi di questo legame. A una vita ormai priva di guizzi di ribellione fa eco uno sguardo implacabile, formulare, di notazioni ambientali continuamente ribadite e immerse nel bianco e nero più cupo della carriera di Ozu. Ai personaggi, tutt'altro che disumanizzati a partire dalla giovane coppia protagonista, restano la mutua solidarietà, il languore nostalgico, la meditazione alcolica.

A un certo punto veniamo a sapere che un bambino c'era, e che è morto. Nascosti in secondo piano, se si fa attenzione, troviamo tutti i terreni di contesa della guerra ormai abbandonata. Le pareti sono spoglie, senza più locandine di film americani. Nessuno va al cinema in Inizio di primavera. Non si cerca scampo nel vestire: l'abito è uno, squadrato, formale, e un manichino biancheggia nudo nella penombra del salotto. Degli orologi che mettevano in allarme battendo il tempo neanche l'ombra, solo la sveglia che spedisce in ufficio. Sparito il brivido del movimento, i camion, le barche; la vita che fugge, ma vera e tangibile. Restano i treni che portano in fabbrica, sempre stesso passo e stessa inquadratura. Stupendamente incorniciati dai piloni di un ponte, due colleghi guardano filar via una squadra universitaria di canottaggio e riflettono su ciò che è stato. C'è ancora tempo per rimediare, prima che - come nella canzone - restino “solo le sagome dei due innamorati”?