L’ultima giornata della sezione “Il Jazz al Cinema” è stata presentata come una vera e propria celebrazione del jazz. Una celebrazione intesa anzitutto come esplicito omaggio. Quello al grande sassofonista Ben Webster con Big Ben: Ben Webster in Europe (1967) diretto da Johan van der Keuken e la testimonianza filmata dell’edizione del ’58 del celebre jazz festival di Newport con Jazz on a Summer’s Day (1959), film-concerto di Bert Stern e Aram Avakian. Ma si è trattato anche di una celebrazione più sottile e meno immediata, che attraverso l’esaltazione del rapporto tra il jazz e le immagini ha voluto omaggiare la vera natura e lo spirito di questa musica, insistendo su quel dialogo e quel linguaggio improvvisato e libero che la contraddistingue. Dialogo che nei film in questione intercorre direttamente tra suono e immagini, e in un intreccio di sensi svela quell’imprescindibile sinestesia che è parte dell’anima stessa del jazz. Con Begone Dull Care (1949), terza pellicola proposta, l’avanguardista Norman McLaren – regista d’animazione canadese – assieme a Evelyn Lambert rende chiaro questo concetto, creando un punto d’incontro innovativo tra jazz e immagini, in cui la musica suggerisce le forme che appaiono sullo schermo rendendo evidente quindi l’interdipendenza tra i due linguaggi. Riprendendo gli esperimenti cinematografici degli anni trenta di Len Lye e rielaborando le concezioni che scossero le avanguardie artistiche ad inizio secolo – portando Kandisky a parlare di suono dei colori e delle forme – McLaren dà vita ad una vivace improvvisazione visiva su tre pezzi del trio di Oscar Peterson, composti appositamente. La musica del pianista suggerisce così un’esplosione di colori, di macchie e figure, di linee, il tutto ottenuto dal regista intervenendo direttamente sulla pellicola con incisioni e colorazione.
Questa “fantasia astratta” ci mostra dunque un dialogo che sul piano formale e visivo si concretizza nell’accostamento tra strumenti musicali e colori, forme e ritmo. E tale sincronismo video-sonoro, certamente in maniera meno calligrafica e più consueta, caratterizza allo stesso modo le altre due pellicole e diviene il vero fil rouge di questa celebrazione finale. Jazz on a Summer’s Day è quasi privo di dialoghi e lo spazio è lasciato dunque interamente alla musica, a cui subentra di tanto in tanto la voce dello speaker che annuncia i grandi nomi sul palco, da Monk a Mahalia Jackson, da Louis Armstrong a Gerry Mulligan. Stern, spinto dal suo occhio fotografico e portato dal suono delle note muove la macchina in totale libertà soffermandosi tanto sui musicisti e gli spettatori quanto sulle spiagge, le onde e le barche dell’America’s Cup, in un flusso visivo a ritmo di jazz.
E in Big Ben questa “ripresa del suono” diviene ancor più tangibile, attraverso la sovrapposizione degli assoli di Webster con i rumori d’ambiente circostanti, come quelli di una fabbrica di sassofoni, suggerendo l’idea di una totale libertà espressiva che prenda spunto dal quotidiano. Ed infine la compenetrazione tra jazz e cinema pare materializzarsi sotto i nostri occhi quando vediamo il musicista riprendere con una piccola cinepresa alcune scene che a nostra volta vedremo proiettate di lì a poco sullo schermo. Ad accompagnarci, sempre le calde linee delle sue melodie.
Marcello Polizzi – Associazione Culturale Leitmovie