Il film è una coproduzione italo-francese del 1964. Il progetto, però, risale alla metà degli anni '50, al cosiddetto "periodo spagnolo" di Marco Ferreri, che occasiona l'elettivo sodalizio con lo scrittore Rafael Azcona. Insieme, infatti, firmano la sceneggiatura. Il soggetto s'ispira alla vicenda di Julia Pastrana: donna barbuta nata in Messico nel 1834, esibita come fenomeno in freak show di vari Paesi, conosce un certo Theodore Lent che diventa suo marito e impresario; a 26 anni Julia mette al mondo un bambino (peloso), che muore subito dopo, raggiunto dalla madre per complicazioni post-partum; Lent fa mummificare moglie e figlio per esibirli nei suoi spettacoli.
Ma questa non è la sola fonte del film. Secondo le dichiarazioni di Azcona, “nello stesso periodo in Spagna si parlava molto d'un miracolo: una ragazzina nel bosco era stata aggredita da un paio di malfattori pronti a violentarla. Terrorizzata la ragazzina invocò la Madonna e d'un tratto il suo corpo si era coperto di peli...”(La Repubblica, 1 luglio 2001). Questo fatto di cronaca non siamo riusciti ancora a reperirlo. Non importa, giacché di là dall'attualità occasionale (ciascuno ha il suo cielo sulla palude), l'episodio miracoloso ripete un mythos cristiano e rinnova un exemplum agiografico. La medesima narrazione, appena diversificata nel corso dei secoli, si rapprende nel martirio di Santa Staraosta: per sottrarsi alle nozze con un principe pagano, la vergine cristiana supplica Iddio di renderla indesiderabile; la grazia viene impetrata, le crescono barba e baffi; a questo punto, il padre s'infuria e la fa crocifiggere.
Del resto, il corpo di una martire barbuta è già stato oggetto di devozione dell'ape regina. Ma, quanto a genesi della Donna scimmia, c'è un'altra referenza decisiva: un dipinto di Jusepe de Ribera (detto Spagnoletto): Maddalena Ventura con il marito e il figlio (ovvero Donna barbuta, 1631). Una specie di Sacra Famiglia: padre, madre e bambino attaccato al seno; la donna che allatta il neonato è villosa (molto villosa). Il quadro è sconcertante. Visto all'epoca, a Toledo, per Ferreri e Azcona dev'essere stata una folgorazione. Un'immagine surrealista. Una 'invenzione', cioè una trovata. Se la vicenda di Pastrana definisce il plot come supporto per un apologo crudele, se il fatto di cronaca fissa una iconografia popolare e religiosa, il dipinto paradossale di Spagnoletto è un'immagine movente. Di qui nasce e prolifera il film: per “gemmazione”, direbbe Ferreri. Il quadro di Ribera, su commissione del Vicerè di Napoli Ferdinando II, è stato dipinto a Napoli. Per questo, senza mare, senza Vesuvio, il film è stato girato a Napoli.
La donna scimmia ottiene il visto di censura (n. 42051), l'8.01. 1964, con divieto ai minori di anni 14 “contenendo scene e sequenze non adatte alla particolare sensibilità dei minori stessi”. Prima proiezione al Metropolitan di Bologna, il 29.01.1964. Come si chiude il film? Maria (la donna-scimmia, Annie Girardot) muore di parto, poco dopo il bambino; il marito Antonio (Ugo Tognazzi) cede i due cadaveri al Museo delle Scienze dove vengono imbalsamati; ma Antonio ci ripensa e, reclamati i corpi, li espone in una baraccone da fiera. Questo il terribile, coerente explicit voluto da Ferreri. Tuttavia, in diverse città, viene proposta una edizione mutila: il film si chiude sulla morte (sacrificale) di Maria. Non è ancora chiaro a chi si deve la manomissione (al produttore Carlo Ponti? alla distribuzione?), che testimonia oggi solo di uno zelo censorio non richiesto. Dell'epilogo, poi, occorre una variante sorniona (concordata con Ferreri) nella versione per l'estero: la donna-scimmia perde i peli durante la gravidanza e dà alla luce un bambino normalmente glabro, condannando il marito a un lavoro onesto. Il restauro della Donna scimmia approntato nel 2017 dall'Immagine Ritrovata riporta in successione i tre finali.
(Dal catalogo "Il Cinema Ritrovato - XXXIV edizione")