“Cosa le devo dire?
“Ma non lo so… è tutto troppo idiota!”
“Ma cosa?”
“Tu, io, loro, la loro guerra e il resto!”
In una Parigi notturna - nera come il mercato di contrabbando che la anima durante l’occupazione nazista - quattro ingombranti valigie, piene di maiale appena macellato, diventano il pretesto che fa incrociare le vite di due uomini, diversissimi tra loro. L’ex tassista Marcel Martin è disoccupato e sbarca il lunario trasportando di nascosto prodotti alimentari la cui vendita è vietata. Rimasto improvvisamente senza l’abituale compagno di lavoro (colto in flagrante mentre vendeva sapone), incontra in un locale Grandgil, un misterioso individuo che accetta di unirsi a lui per trasportare, da un capo all’altro della città, cento chilogrammi di maiale. Le peripezie che i due dovranno affrontare nella notte metteranno in luce i caratteri dei due uomini, la povertà e la sofferenza - nonché l’insofferenza - del popolo francese sotto l’occupazione nazista e alcuni aspetti grotteschi della quotidianità in tempo di guerra.
Per realizzare il suo La traversée de Paris Claude Autant-Lara prende spunto dall’omonimo racconto dello scrittore Marcel Aymé, autore di letteratura umoristica e per ragazzi. Il testo viene però rivisto dagli sceneggiatori Jean Aurenche e Pierre Bost, che sostituiscono il finale, originariamente tragico, con una lieta, anche se disincantata, fine. Ma la scelta degli sceneggiatori non convince del tutto Autant, tanto che nel film sono ben distinguibili due finali: un primo che corrisponde a quello voluto dal regista ma che rimane un po’ sfumato per esser poi ripreso dal secondo e definitivo epilogo.
Il film, inizialmente ideato a colori, viene girato in bianco e nero, perché l’autore del racconto, Aymè, comincia a far pressione sulla produzione per la scelta, da lui non condivisa, di André Bourvil come interprete di Marcel Martin. Le pressioni si traducono poi nell’abbassamento del budget di realizzazione del film e in un passaggio dall’iniziale colore al bianco e nero. Soluzione di ripiego quindi, ma che ora, ai nostri occhi, sembra quasi una benedizione, calata su una Parigi nettamente delineata nei suoi contorni notturni e sui due protagonisti che vagano nel buio della notte, illuminati solo dalla luce dei lampioni.
Solo poco prima dell’uscita della pellicola Aymè ritirerà le sue aspre critiche, facendo sapere ad Autant-Lara che nessuno ha mai tratto un film così bello da un suo racconto. Infatti, come ogni spettatore può notare, Bourvil funziona benissimo nel ruolo di Marten, per il semplice motivo che la sua interpretazione va a bilanciare perfettamente quella di Jean Gabin nei panni di Grandgil. Quanto il primo personaggio è semplice, ingenuo, sprovveduto, pasticcione e generoso, tanto il secondo è cinico, ambiguo, manipolatore, calcolatore e quasi privo di sentimenti.
Se - come ha sottolineato Nicolas Seydoux, presidente della Gaumont, durante la presentazione del film - la vera star del film è la Parigi sotto occupazione, bisogna però concedere che Gabin, Bourvil e Louis de Funès - nella esilarante parte di un nervoso ed esasperato droghiere – non brillano meno della stella principale.
Su tutti svetta Jean Gabin, qui nel ruolo di un famoso e benestante pittore che decide, per capriccio o per noia, di scendere in strada. Forse per vedere da vicino cosa si nasconde dietro la facciata di quegli scorci parigini che lui stesso dipinge e vende a caro prezzo. Forse solo per osservare, con sguardo da divertito entomologo, le vite degli altri. Da assoluto estraneo e citando Heine, Grandgil si cala fra il popolo francese che ritiene di conoscere ma che non conosce. Si immerge in una realtà fatta di perdenti, di poveri, di brutti, di illetterati, di spaventati, di coloro che non possiedono nulla e quindi - secondo lui - nulla hanno da perdere. Se non le proprie vite. E la notte, invece, lo porterà proprio lì, in un gioco di potere che mette a rischio le vite di tutti, compresa quella di chi si sentiva al sicuro. Un gioco che si svolge dentro un commissariato nazista, caduto come un asteroide dentro un palazzo storico in stile Luigi XV. “Sfortunatamente - sottolinea con sarcasmo Grandgil - il grigio verde non si intona con l’ambiente”.
Alla fine, quella di Claude Autant-Lara sembra quindi essere una riflessione cinica e molto amara sulle “idiozie della guerra” ma anche tout court su quelle umane; una speculazione affrontata con uno spirito antimilitarista e poco patriottico (come del resto il regista aveva già mostrato nel suo più famoso Le diable au corps), che qui si unisce ad uno sguardo apparentemente scanzonato ma in verità molto radente.
Attraverso quelle valigie che vanno e vengono da Parigi - sia quelle pesantissime, piene di maiale e di paura, che aprono il film, sia quelle più leggere, che ipotizziamo piene di indumenti e di speranza, che lo chiudono - Autant-Lara incrocia e racconta vite e destini, inquadra facce e figure, strade e vicoli, osterie e palazzi, senza altra disillusione che la condivisione di un tratto di strada percorso insieme.