Esiste un meccanismo specifico per cui un individuo si trasforma da modello a icona. Nel caso degli attori, il processo non si limita esclusivamente alla dimensione della video camera o del palcoscenico, è — come ricorda Lucio Spaziante — la “messa in scena sociale” a costruire un’identità narrativa riconoscibile che invade tutti gli ambiti discorsivi. È il processo della mitopoiesi, per cui alcune entità culturali acquisiscono le condizioni per sopravvivere mitologicamente al passare del tempo, a prescindere dai giudizi di valore che subiscono. Uno statuto “emblematico” che Jane Fonda e Jane Birkin, seppur con modalità diverse, hanno raggiunto, entrando in quella dimensione simbolica che è commistione ultima di reale e immaginario.

Citizen Jane, l’Amérique selon Fonda (F. Platarets, 2020) e Jane Birkin, simple icône (C. Cohen, 2019) sono due documentari che ci pongono davanti al concetto di “icona” in quanto immagine-portavoce di significati indiretti, l’essenza estetica che diventa configurazione collettiva attraverso narrazioni politiche, sociali e culturali. Due nomi che con le logiche dell’agire pubblico e privato, tra battaglie personali e comunitarie, hanno contribuito a segnare i cambiamenti di un’epoca costruendo un percorso di autoaffermazione imprescindibile. Jane Fonda, la femme fatale, figura attoriale inizialmente plasmata sulle fantasie di un pubblico prevalentemente maschile, costretta costantemente a misurarsi col nome del padre. Jane Birkin, la “petite baby doll” della swinging London trapiantata in Francia, indissolubilmente legata nell’immaginario collettivo al musicista Serge Gainsbourg. Dall’incarnazione di desideri dissacranti, le due Jane hanno compiuto una serie di rilevanti trasformazioni riuscendo a svincolare la propria immagine dagli uomini che ne hanno (direttamente e indirettamente) plasmato il destino.

Figlia di un autentico gigante di Hollywood, Jane Fonda si misura con problemi di anoressia sin da piccola. Le ombre della depressione e del suicidio della mamma si allungano su di lei all’età di dodici anni, mentre la ricerca spasmodica di un segno di approvazione da parte del padre Henry la porta a intraprendere la carriera d’attrice. Similmente Jane Birkin, figlia dell’attrice Judy Campbell, sviluppa una passione per la recitazione di pari passo a un rigetto per il proprio corpo, considerato dai suoi coetanei esageratamente mascolino. Se il legame sentimentale con Roger Vadim porterà Jane Fonda a esaltare la sua immagine di “bomba sexy” con scandalosa ironia (Barbarella), le nozze di Jane Birkin col compositore John Barry contribuiranno a mortificarne l’autostima e a relegarla quasi esclusivamente al ruolo di comparsa e di moglie fedele. E mentre Barry le pone il veto di recitare nuda con Antonioni in Blow-Up, sarà proprio il timido istinto ribelle di Jane a segnarne il punto di svolta a livello iconico. Con la complicità romantica di Serge Gainsbourg, che la esorta a fare del proprio corpo androgino un modello, Jane Birkin trasforma le sue antiche debolezze in un punto di forza, influenzando la moda, la discografia e la cultura pop francesi per tutta la durata degli anni Settanta.

E l’America di Jane Fonda? Se per Una squillo per l'ispettore Klute fu disposta a premiarla con l’Oscar, a livello politico si impegnò a demolirne l’immagine e lo spirito. Svestiti i panni della ragazza dal fascino letale, Jane Fonda si presenta al pubblico con pochissimo trucco e senza reggiseno: al centro della sua militanza c’è l’opposizione alla guerra in Vietnam. Insieme a Donald Sutherland intraprende il Free the Army Tour, un vaudeville politico e anti-militarista in risposta agli show filogovernativi di Bob Hope. La foto che la vede posare accanto a una mitragliatrice aerea vietnamita fa il giro degli States e le vale il soprannome di “Hanoi Jane”, mentre l’F.B.I. cerca di screditarla alla stregua di Jean Seberg. È durante questo periodo che Jane Fonda modificherà radicalmente il corso della sua carriera, riducendo la sua attività lavorativa a pochi selezionati ruoli in modo che riflettano le sue visioni sociali e politiche.

Ma sono gli anni Ottanta a segnare il decennio-spartiacque delle due Jane. Se la Birkin si allontana dall’alter ego distruttivo di Gainsbourg (“Gainsbarre”, un edonista alienato e consumato dall’alcol) lo fa soprattutto per trovare un centro di gravità che la conduce a teatro per la prima volta e a collaborare con registi del calibro di Rivette, Doillon e Godard. Alla soglia dei quarant’anni, Agnès Varda le dedica Jane B. Par Agnès V., un ritratto biografico in cui la Birkin fa i conti con passato e presente. Devota a battaglie per i diritti civili e alla lotta all’AIDS, Jane indossa vestiti comodi e dismessi, porta i capelli corti e preferisce non truccarsi. Lolita, “la musa”, è morta, ora c’è Jane B., sola e senza pigmalioni, pienamente a suo agio con l’immagine riflessa allo specchio e, soprattutto, col suo talento. Dall’altra parte Jane Fonda — che nel frattempo è diventata simbolo dell’aerobica per sostenere la campagna politica del marito Tom Hayden — matura il desiderio di ritirarsi. Stanca di misurarsi con la celebrità, se da un primo momento era riuscita a trasformare il fitness in un movimento di “riappropriazione” del corpo femminile, si sente appesantita dalle ambiguità della sua immagine. Sarà la sua assenza dalle scene, durata quindici anni, a restituire al pubblico una donna capace di confrontarsi con le sue contraddizioni e, oggi più di ieri, simbolo di protesta trasversale.

Le storie di Jane F. e Jane B. rappresentano, in fondo, racconti paralleli e analoghi di riconquista. Non si tratta (solo) della riconquista del corpo o di una femminilità liberata dagli stereotipi, ma di un rinnovato confronto con la propria personalità. E se di icone si deve parlare, più che svelarne i retroscena è utile de-costruirne la mitologia: si potrebbe scoprire che la strada per l’indipendenza passa per dolori e  debolezze prima che per coerenza e granitiche convinzioni.