Un affascinante Maurice Chevalier nei panni del maturo e impenitente dongiovanni Honoré ci guarda e ci avverte, cantando la famosa Thank God for Little Girls, che stiamo per assistere alla storia di una “little girl” del tutto particolare: si tratta di Gigi (Leslie Caron), personaggio così vitale, energico e sopra le righe da conquistarsi il titolo del film di Vincente Minnelli che nel 1959 batté ogni record agli Academy Awards aggiudicandosi ben nove premi Oscar.
Sin dalla prima sequenza vengono messi in evidenza tutti gli elementi fondamentali dell’opera, sia per quanto riguarda i temi sviluppati dalla trama (il passaggio dall’infanzia all’età adulta, l’amore, il matrimonio) sia per ciò che attiene alla forma specifica del film: lo sguardo in macchina e il coinvolgimento degli spettatori richiamano l’attenzione sull’ars affabulatoria propria del cinema; il canto ci rende consapevoli di essere entrati nel genere musical; la macchina da presa sempre in movimento (specialmente in carrellate laterali) ci invita a seguire i personaggi nelle loro vicende.
E’ soprattutto l’aspetto tecnico-formale a colpire, sebbene anche la sceneggiatura (tratta da un racconto di Colette del 1944 e vincitrice di un Oscar) offra momenti brillanti e divertenti. Regia, montaggio, fotografia sono stati infatti premiati per la loro eccellenza e l’opportunità offerta dal Cinema Ritrovato di rivedere il film in una copia vintage originale in 35mm e in Technicolor ci ha permesso di godere appieno degli sgargianti colori dei costumi di Cecil Beaton, degli arredi sfarzosi ricreati da Preston Ames e anche dei meravigliosi esterni parigini fotografati con il procedimento Metrocolor della MGM da Joseph Ruttenberg.
È da segnalare come ogni elemento sia perfettamente curato e inserito in un disegno armonico. Se a tratti la vicenda dell’amore tra uno scapolo annoiato dalla vita e una sgraziata ma vivace ragazzina può apparire banale ai nostri occhi, la narrazione in chiave musical – con le sue peculiari regole di sospensione dell’incredulità, l’approfondimento psicologico messo in musica, l’immancabile lieto fine – permette al film di evitare l’accusa di superficialità e di ottenere anzi pregio dall’esplosione e dalla successiva risoluzione dei conflitti, che siano interiori ai personaggi (i dubbi di Gigi sulla vita matrimoniale, ad esempio) oppure che costituiscano gli snodi tematici fondamentali della pellicola: uno su tutti, quello tra onestà dei sentimenti e accettazione sociale, come emerge dalle parole di Gigi che si sente “infliggere infelicità in nome della rispettabilità”.
Le canzoni stesse, oltre a far emergere i caratteri dei personaggi (I’m Glad I’m Not Young Anymore per Honoré, It’s a Bore! per Gaston, I Don’t Undestand the Parisians per Gigi) e a seguirli nelle loro modificazioni in seguito ai vari accadimenti, riescono a delineare anche l’ambiente sociale: si pensi a The Gossips, che scherzosamente descrive le convenzioni e le falsità dell’entourage aristocratico dei Lachaille con la geniale trovata della “pausa” che precede ogni strofa. Non stupisce quindi che due degli Oscar vinti dal film siano proprio relativi al commento musicale: André Previn si aggiudicò quello per la Migliore Colonna Sonora mentre Gigi di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner l’ottenne per la Miglior Canzone. Questo brano è il fulcro della vicenda: esso esprime le riflessioni di Gaston e ne segue l’evolversi dei pensieri mentre si rende conto dei propri sentimenti per Gigi e di come lei non sia più la “little girl” che abbiamo incontrato all’inizio del film, ma una donna di cui lui si è ormai innamorato contro ogni aspettativa. Mentre Louis Jourdan canta questa canzone, si vedono alle sue spalle dei bianchi cigni in un laghetto, allusione alla favola del brutto anatroccolo e chiara metafora della trasformazione subìta dalla protagonista.