Lo sguardo vitreo e l’espressione del volto incorruttibile e dura della giovane Martha Ivers alla vista del cadavere della zia assassinata sono già una dichiarazione d’intenti. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Nessun bisogno di redenzione. C’è voluto pochissimo: uccidere la donna e causa del suo malessere “è stato come respirare”, per citare il personaggio di Henry Fonda in Furore di John Ford. Alla regia di Lo strano amore di Martha Ivers c’è invece Lewis Milestone il cui film – oltre che a reggersi sulle splendide interpretazioni di Barbara Stanwyck e un Kirk Douglas alle primissime armi – parla del bisogno di allontanarsi dal proprio passato rimuovendone le macchie e dell’inevitabile senso di colpa che ne consegue. Una delle tante accortezze di questo film è l’aver reso programmaticamente speculari e identiche le due Marta: nella giovane e nell’adulta permangono lo stesso sguardo, la caparbietà e il fascino seduttivo, ma soprattutto un definito senso di non appartenenza che l’avrebbe accompagnata fino alla fine.
Cominciamo dall’inizio. È una notte piena di pioggia e dopo l’ennesima lite Martha uccide sua zia spingendola per una scalinata. Non è sola; con lei c’è il figlio del suo tutor e futuro marito Walter O’Neil che tacito acconsentirà ad insabbiare per sempre questa verità. Con loro c’è Sam, giovane scapestrato che poco prima aveva aiutato Martha a scappare di casa per l’ennesima volta. Sam non è complice né testimone del delitto e non avrebbe saputo nulla fino al suo ritorno ad Iverstown, diciotto anni dopo, per un detour inaspettato. S’imbatterà in Toni, innamorandosene. Toni è una tormentata ex galeotta che di lì a poco avrebbe violato la libertà condizionata costringendo Sam a rivolgersi a O’Neil, il timido e schivo O’Neil che era finalmente diventato qualcuno, procuratore della città. Qualcosa per lui non torna. O’Neil si rende conto dell’imperituro interesse di Martha per Sam e viceversa, almeno fino a un certo punto, non facendo altro che sabotarli.
Come vediamo, in The Strange Love of Martha Ivers la prospettiva è corale e i punti di vista sono tanti; merito di un rifinitissimo lavoro di sceneggiatura, le voci si confondono e le trame si incastrano, andando a rivelarne gradualmente non detti e ulteriori macchinazioni ed intrighi. Intrappolata in una vita che era convinta non le appartenesse e di cui, nello stesso tempo, non poteva più fare a meno, per Martha rimuovere non sarà sufficiente per lasciarsi alle spalle il proprio passato, passato che non potrà far altro che ritornare, seppure sotto abiti differenti. Le si ri-materializzerà attraverso le vesti di Sam, assoluta nemesi di O’Neil.
La relazione tra i tre si farà sempre più morbosa – O’Neil che è succube della follia di Martha che è a sua volta preda dell’evasività di Sam - fino all’agnizione finale quando Sam riconoscerà ciò che realmente si nascondeva tra le pieghe del volto abbacinante e luminoso di Martha: un’instabilità che in fin dei conti intenerisce, sola al mondo, “all by myself”, ripeteva sempre. Martha Ivers è un personaggio enigmatico e inafferrabile, una dark lady ante-litteram e senz’altro più fragile delle altre femmes fatales che abbiamo poi visto sul grande schermo.