Quando gira Non sono un angelo, nel 1933, Mae West è appena al terzo ruolo cinematografico ma già all’apice della sua breve parabola. Dopo lo strepitoso successo di Lady Lou nello stesso anno, con perfino una candidatura all’Oscar come miglior film, la Paramount si sdebita dandole carta bianca. Se già nei due film precedenti West aveva avuto parecchia voce in capitolo - in Night after Night (1932) come coautrice non accreditata dei dialoghi, mentre Lady Lou trasponeva un suo lavoro teatrale – ora è unica soggettista, sceneggiatrice e dialoghista delle sconcertanti scene che interpreta, privilegio per pochi, ma che l’illustre casa di produzione non potè non concedere a chi in epoca di gold diggers era arrivata da sola a valere quanto un’intera gold mine.
Quello che ne scaturisce è un vero e proprio manifesto del Mae West-pensiero, quella “proposta di uno stile di vita” (La Polla) travolgente e a suo modo liberatoria, che a cavallo dell’introduzione del Codice Hays seppe prendere per mano gli Americani e (soprattutto) le Americane della Depressione veicolando un modello femminile alternativo, di sfrontata e balsamica vitalità a dispetto del suo ostentato cinismo. La sua carriera di sex symbol non bellissima e improponibile role model ha l’aspetto di un’unica gigantesca eccezione ai canoni morali ed estetici di Hollywood, un “a mali estremi estremi rimedi”, un dictator romano eletto per guidare il popolo oltre i tempi più bui salvo poi riuscire scomodo e cadere presto in disuso una volta ristabilito l’equilibrio repubblicano.
Breve ma intensa la cavalcata di West (bisognava onorarla con almeno un doppio senso, da aggiungere alle decine che affollano i dialoghi del film) ma si sa che chi brucia la candela dai due lati..ecc; di sicuro in I’m No Angel dà tutta se stessa, e per buona misura semina qualche tocco autobiografico: la protagonista Tira – grande attrazione del circo Barton che fa un po’ di tutto, dagli spogliarelli alla domatrice di leoni, mentre seduce e spenna un pollo dopo l’altro – è nata come lei il 17 agosto, e la sua vera governante, l’afroamericana Gertrude Howard, “riprende” il ruolo in una serie di agghiaccianti siparietti razzisti. Lontanissima e insieme dolorosamente vicina alla realtà, Tira incarna un sogno irraggiungibile di potere e benessere economico, protetta ovunque da un kitsch delirante e da un tempismo verbale da drama queen che le fa inanellare una battuta memorabile dopo l’altra. Doma gli uomini come animali (pur popolarissima anche presso il pubblico maschile sarà per sempre considerata precorritrice di un certo femminismo camp), canta le proprie vittorie accompagnata dal coro delle sue schiave-governanti come un cattivo della Disney, e come i migliori cattivi Disney è impossibile non volerle bene, mentre cerca, se volare proprio non si può, di cadere con stile.