Arriva direttamente dalla Francia la copia originale di Vertigo proiettata al Cinema Ritrovato di quest’anno. Uno speciale regalo in pellicola per gentile concessione, precisamente, della Cinémathèque Française. Il film capolavoro di Alfred Hitchcock del 1958 è un film lungo e complesso, dalle molteplici interpretazioni, su cui si potrebbe scrivere all’infinito senza giungere a completezza.

La trama è a dir poco celebre. Il detective John “Scottie” Ferguson, un magnifico e sperduto James Stewart, non è solo affetto da acrofobia (paura delle altezze) ma da un forte senso di colpa per la morte di un collega e, in seguito, per quella dell’amata Madeleine. Quello della donna è in apparenza un suicidio, in realtà una messinscena che avrà nefaste conseguenze. La bionda Kim Novak entra trionfale nell’algida figura di Madeleine: abiti eleganti, modi raffinati e seducenti, sguardo magnetico e un segreto legato ad una nobildonna del passato che sembra averla posseduta. E la figura da donna tormentata è servita. Ma alla morte apparente di Madeleine, ecco che compare la Novak nei panni di Judy. Capelli scuri, trucco pesante, abiti modesti, parlantina sciolta non ingannano però Scottie, che riconosce in lei l’amata. Così passa da un amore proibito ma sincero, ad un insieme di riti simbolici per ricordare la donna, percorrendo tutti i luoghi da lei frequentati (il cimitero, il museo, il fioraio), finendo col trasformare Judy in Madeleine: lo stesso chignon biondo, lo stesso tailleur grigio, lo stesso viso acqua e sapone. E qui l’amore diventa ossessione anche per lei che sceglie di annullare sé stessa, di diventare una donna che non esiste, pur di avere accanto il suo Scottie, ed instaura con lui un rapporto di dipendenza sadomasochista.

Ma è solo l’amore a rendere folli o è semplicemente il senso d’impotenza? Scottie è un uomo frustrato, incapace di proteggere le persone che ama, di emanare mascolinità e sicurezza, che si tiene a distanza, fisicamente e ideologicamente. Judy, personaggio veramente tragico, è anch’ella frustrata. Vive all’ombra del fantasma di una donna mai esistita, la quale le impedisce di essere amata per quello che è ma con la quale finisce per fondersi, annullandosi psicologicamente e, infine, fisicamente; a nulla valgono i tentativi di specchiarsi, di cercare sé stessa in un riflesso, poiché Judy è solo una silhouette di profilo, Madeleine è un sogno ad occhi aperti.

Il tutto è costruito su un climax di follia, un equilibrio fortemente precario tra l’alto e il basso, sia a livello visivo che narrativo: l’iniziale corsa sui tetti, poi il tuffo nella baia, i maestosi alberi del bosco e, naturalmente, la torre del campanile, nucleo e simbolo (fallico) della tragedia, che segna la tappa centrale e quella finale della vicenda. Da sfondo, le tortuose salite e discese di San Francisco. Il dramma umano della paura di cadere, di perdere il controllo, di subire l’eterno ritorno, di vedere frantumato il proprio essere e un perenne senso di impotenza percorrono tutta la vicenda, la cui soluzione (alla morbosa ossessione del passato, quindi alle vertigini) si trova solo nella morte.

Un film magnifico, che a distanza di quasi 60 anni mantiene inalterato il suo tragico fascino.

Denise Penna