Mentre il cinema italiano cominciava a raccontare la Resistenza attraverso film ancora oggi considerati fondamentali, Giuliano Monaldo esordiva dietro la macchina da presa con una storia dalla parte sbagliata. Il pubblico lo ignorò, la critica fu fredda al passaggio alla Mostra di Venezia nel 1961 e l’opera prima del regista di Sacco e Vanzetti è stata poco ricordata da allora. Perché Tiro al piccione, che risorge ora grazie al restauro curato da Cineteca Nazionale e Centro Sperimentale, fu sostanzialmente respinto? La risposta è banale: tema scomodo.
In Italia non abbiamo una vera tradizione narrativa sulla Repubblica sociale di Salò: escludendo i nostalgici e i revisionisti che hanno inondato la pubblicistica – seppur non mainstream – di memoir e romanzi spesso illeggibili, utili giusto per avere un’idea del clima dell’epoca e del senso di revanscismo postbellico, sono pochissimi gli autori davvero degni di attenzione. Prima di Carlo Mazzantini (purtroppo, dopo il folgorante debutto autobiografico A cercar la bella morte, ripiegatosi nel reducismo e nel rancore tipico dei fascisti che non si rassegnano alla sconfitta), c’è stato l’ottimo Giose Rimanelli, molisano poi emigrato in America che nel 1953 pubblicò Tiro al piccione per Mondadori. Il notevole testo, già di per sé abbastanza audace benché mai sospettabile di rigurgito fascista, costituì per Montaldo l’occasione di esordire con un film altrettanto coraggioso.
Negli anni della narrazione antifascista (Tutti a casa, La lunga notte del ’43, Era notte a Roma, Un giorno da leoni per citarne alcuni esempi), Montaldo si dimostra subito cineasta di grande tolleranza e dallo spirito sinceramente democratico: ciò che gli sta più a cuore è capire l’orizzonte umano di un ragazzo, arruolatosi volontario a Salò, che non ha mai conosciuto altro mondo all’infuori di quello fascista. Pur basata sul testo di Rimanelli, è un’operazione complessa, perché il regista si ritrova a dover costruire un personaggio nuovo per un cinema italiano invece molto ferrato sulla mitologica rappresentazione dei partigiani e su quella spregevole dei fascisti. Nello scandagliare il reparto, Montaldo sottolinea l’eterogeneità di una compagine nella quale convivono la violenza squadrista (Gastone Moschin) e la codardia delle élite (il comandante Carlo D’Angelo), l’ottuso militarismo (Sergio Fantoni) e il disincanto di chi ha cambiato idea (Francisco Rabal).
“Elia, ma perché le donne non ci vogliono più bene?” chiede Marco Laudato, il giovane protagonista interpretato da Jacques Charrier, ascoltando per l’ennesima volta quell’inno sempre più simile a un canto funebre. Marco, il cui padre morto in Africa si staglia quale motivo principale della scelta repubblichina, è la vittima più nascosta del Ventennio, anche perché si trova fino alla fine dalla parte sbagliata della Storia: illuso da un mondo apparentemente votato all’ordine e alla disciplina, intransigente per non tradire se stesso e i suoi ideali, costretto a capire di essere una delle tante pedine di una guerra che nessuno vuole guidare, compreso il Duce che da lontano lancia parole sempre più vuote.
E via via chiamato ad accettare una deriva nichilista, con prove estreme sospese tra la vita e la morte, che non risparmia l’amore mal riposto verso una donna misteriosa, incarnata da quella Eleonora Rossi Drago qui enigmatica signora lacustre a cui manca l’effimera speranza di salvarsi ancora da un’altra estate violenta. Rivisto oggi, Tiro al piccione – che si avvale di un cast tecnico prestigioso, da Carlo Di Palma alla fotografia a Nino Baragli al montaggio passando per il compositore Carlo Rustichelli – non emerge solo come uno dei migliori film di Montaldo, ma anche per la sua inquietante dimensione da coming of age disperato e cupo. E in pochi hanno raccontato quel pezzo di storia con tale intelligenza.