“Incontriamoci a Saint Louis è un sito di intersezione di vari filoni complessi. Il suo stile convenzionale permette il contenimento del conflitto; tuttavia il particolare processo di contenimento espone i conflitti con insolita chiarezza” (Joe McElhaney, Vincente Minnelli: The Art of Entertainment).
La morale ultima de Il mago di Oz era che “nessun posto è come casa propria”, un’idea che aderisce anche allo spirito di Incontriamoci a Saint Louis. Abbiamo Judy Garland, il patron della MGM Arthur Freed alla produzione, ma dietro la macchina da presa c’è Vincente Minnelli. La realtà da lui dipinta non è quella del Kansas, anzi: sembra che il regista abbia voluto sporcare deliberatamente le vicende di una famiglia medio borghese residente nella ridente cittadina di Saint Louis a inizio Novecento con l’accecante bagliore di colori del regno di Oz, con una resa a tratti inquietante.
Come in una serie di diapositive, ci viene mostrata la storia della famiglia Smith nel corso del 1903, un anno prima dell’attesa Esposizione Universale che si sarebbe tenuta a Saint Louis, città che la famiglia si prepara a dover lasciare a causa di un prossimo trasferimento a New York. Saint Louis diventa quindi il simbolo dell’unità degli affetti (familiari e non) che i personaggi devono mettere necessariamente in discussione sullo sfondo del nuovo secolo già affacciatosi all’orizzonte.
Riunendo musical e melodramma, due forme espressive a lui care (basti pensare alle atmosfere del successivo Qualcuno verrà), Minnelli, qui al suo terzo film, palesa l’intenzione di rappresentare un vero e proprio incubo made in Hollywood con uno stile sovversivo e atipico. Un’operazione che può essere sintetizzata anche dalle parole di Franco La Polla: “In fondo non credo che Hollywood sia stata la fabbrica dei sogni che tutti dicono. Si trattava piuttosto di incubi, solo che tra un incubo reale e uno fantasmatico era sempre preferibile il secondo”. Infatti, nonostante l’happy ending, Incontriamoci a Saint Louis non riesce ad esorcizzare l’angoscia post-traumatica del proprio incubo.
Uno spirito che Minnelli riesce a trasmettere attraverso la magnificenza dei set (solo la ricostruzione di Saint Louis costò 200.000 dollari), la coloratissima fotografia e le canzoni diventate nel tempo dei veri e propri standard musicali: dall’inno iniziale Meet Me in St. Louis a The Boy Next Door (che sarebbe stata reinterpretata anche da Frank Sinatra) fino a Under the Bamboo Tree, anche se le canzoni più celebri del film sono senza dubbio The Trolley Song e Have Yourself a Merry Little Christmas. Mentre nella prima, una vera e propria esaltazione della modernità d’inizio secolo, il mood malinconico della performance della Garland è contenuto da una certa euforia di fondo, tutt’altro possiamo affermare riguardo alla seconda. Diventata nel tempo una delle canzoni più popolari del periodo natalizio, Have Yourself a Merry Little Christmas è un erompere disperato del perturbante, dato dal fatto che tutto ciò che esiste di caro e rassicurante può venire meno da un momento all’altro. Una sequenza profondamente disturbante che raggiunge il culmine con la distruzione dei pupazzi di neve da parte della piccola Tootie.
Ma se è vero che “nessun posto è come casa propria”, allora la performance della Garland è ambivalente: traboccante di una tristezza di fondo che si intona al sentire del film stesso, ma anche densa di speranza. Una speranza che probabilmente sarà destinata a tramutarsi in illusione, ma che vogliamo considerare come seguito ideale di Over the Rainbow, quindi a metà tra un incubo e un sogno.