Furusato no uta (La canzone del paese natio, 1925) narra la storia di Naotarō, un giovane e intelligente agricoltore impossibilitato a continuare gli studi a Tokyo a causa delle condizioni di precarietà finanziaria nelle quali versa la sua famiglia. Dapprima smanioso di mettere a frutto le proprie doti intellettuali e frustrato dalla situazione in cui è costretto, il giovane matura gradualmente, di fronte allo spettacolo indecoroso dei suoi fortunati coetanei dediti, più che allo studio, alle dissolutezze della cultura occidentale importata dalla capitale, un senso di orgogliosa consapevolezza del cruciale ruolo sociale che la classe contadina porta sulle spalle. A livello formale, il più vecchio film di Mizoguchi conservatosi fino a oggi è composto quasi esclusivamente da inquadrature fisse (fanno eccezione alcune camera-car, una delle quali idealmente posizionata su una carrozza) inframmezzate da frequenti didascalie abbellite da decorazioni di uccelli e spartiti musicali. Fatto salvo per un interessante uso della profondità di campo nella composizione di alcune inquadrature, risulta quindi difficile scorgere lungo il film anticipazioni degli elaborati piani-sequenza che costituiranno lo stile del regista negli anni a venire.
La copia proiettata con accompagnamento musicale dal vivo nel corso della XXIX edizione del Festival del Cinema Ritrovato riporta alla luce, a partire da due pellicole conservate al National Film Center di Tokyo, i colori originali del film ottenuti tramite imbibizione: il verde, generalmente associato alla figura del protagonista, alla sua nobiltà d’animo e agli idillici scenari agresti degli esterni; e il fucsia, specularmente connesso agli angusti interni, alla metropoli e al degrado morale di cui sono vittime gli studenti influenzati dai costumi stranieri. L’uso dei colori concorre dunque a sostenere il messaggio del film (vagamente sciovinista in quanto dettato dallo spirito dei tempi – siamo al tramonto del periodo Taishō la cui apertura alle idee occidentali avrebbe ceduto il passo, l’anno successivo, a un periodo Shōwa caratterizzato da un crescente nazionalismo), aggiungendo sfumature di senso alle inquadrature e connotandole “moralmente”. Tale messaggio è ribadito più esplicitamente nel discorso dello stesso protagonista che precede la sua decisione di non cogliere l’opportunità di andare a studiare nella capitale: se tutti se ne andranno, non ci sarà più nessun furusato (il villaggio natio, appunto, tema ricorrente nella cultura giapponese e titolo di un altro film girato dal regista nel 1930), e allora che ne sarà del Giappone?
Nel furusato risiede l’identità di un’intera nazione, poiché i suoi valori sono nutrimento per il Paese esattamente come il riso che si produce nelle sue campagne. Valori (generosità disinteressata, coraggio, amor proprio, dedizione) che vengono riassunti nella scena forse più intensa del film, basata su uno stringente montaggio alternato: mentre il protagonista e sua sorella, insieme a una coppia di amici, si stanno godendo un picnic in campagna in riva a un fiume, poco lontano la figlioletta di un funzionario straniero cade da una barca; Naotarō si getta coraggiosamente in acqua e la trae in salvo, ma quando il funzionario gli offre dei soldi come ricompensa (soldi che potrebbero contribuire all’avverarsi del suo sogno), lui rifiuta sdegnato rispondendo: “No, io sono giapponese”.
Il film ha aperto la sezione del festival dedicata a “I colori del Giappone” (di cui è stata annunciata una seconda parte che avrà luogo l’anno prossimo) insieme al cortometraggio d’animazione Yūreisen (La nave fantasma, 1956) di Noburō Ōfuji, che si serve di cellophane colorati per narrare, senza ricorrere a dialoghi né a didascalie, una semplice ma affascinante fiaba carica di sensualità e orrore, a metà tra il Coleridge della Ballata del vecchio marinaio e un kaidan di Nobuo Nakagawa. La storia di una banda di pirati assalita dai fantasmi delle proprie vittime (che spingono i truci e deformi marinai a massacrarsi tra loro portandoli alla follia per mezzo di illusioni) è sviluppata attraverso astrazioni ipnotiche e un continuo rincorrersi di movimenti laterali generati da carrellate o dal semplice spostarsi dei personaggi in campo.
Giacomo Calorio