“A Different Man” nell’apocalisse delle convenzioni

L’opera basata sulla sua vita, kaufmanianamente, si apre, si espande, integra sempre più prospettive, elevandosi, come il film stesso, a lezione di relativismo, mentre l’omuncolo trumpiano, fallendo miseramente nell’adesione a questo nuovo mondo, trama nell’ombra una qualche forma di vendetta sociale. Il suo ripiegamento egoistico, letteralmente, finisce per schiacciarlo, in modo quasi cartoonesco, nell’unico attimo di reale ilarità che questa fallita marionetta sia mai riuscita a produrre.

“U.S. Palmese” e la fierezza del cinema provinciale

Probabilmente qualche decennio fa anche questo sarebbe stato considerato un film popolare, ma il fascino verso operazioni del genere è ormai appannaggio di quei pochi superstiti che visitano le sale nelle rare occasioni in cui debuttano pellicole come U.S. Palmese. Ci sentiamo di dire che i Manetti fanno cinema provinciale, nell’accezione più onorevole che possa esserci. Sono fuori dal tempo, indifferenti dinanzi al suo scorrere e fieri di abbracciare questa dannata tradizione.

“The Monkey” e il gusto medio che non esiste

The Monkey è impregnato dell’aura della morte, complici anche l’uso dosato della colonna sonora e diverse remote ambientazioni, eppure non inquieta per un secondo, ed è un peccato che l’atmosfera macabra non risalti con maggiore maturità. Dopotutto i protagonisti sono segnati dal lutto, sono sempre pronti al peggio ma la morte li coglie comunque di sorpresa, loro stessi covano violente pulsioni intrusive e l’esistenza di ogni personaggio è segnata dalla transitorietà, eppure The Monkey non riesce a strappare che uno sghignazzo.

“Blade Runner” intatto e inscalfibile

La fumosità del noir americano viene in questo film applicata ad una Los Angeles distopica ricostruita secondo l’architettura delle metropoli orientali. Sobborghi vaporosi e baluginanti di meravigliose cianfrusaglie futuristiche si dipanano ai piedi di immensi palazzi che si innalzano senza fine. Scenografie che tradiscono anche una pesante ispirazione espressionista. L’arena di Blade Runner è infatti una Metropolis in senso langhiano, sia in termini architettonici che sociali, edificata secondo una verticalità che ne rispecchia il rigido schema di classi.

“Amadeus” nello sguardo di Salieri

La chiave della sensazionale riuscita del film sta proprio nel riuscire a giocare sulla iconicità di Mozart. Si racconta il “mostro sacro” della musica classica, se ne sfrutta il genio e lo si rende martire di una società che dà lui ha preteso troppo. Ma si racconta tutto questo senza, di fatto, raccontarlo: si sfrutta la figura di Mozart in quanto “semplice” soggetto che si muove in un piano narrativo, non come leggenda. L’unico a vederlo con gli occhi del fan devoto, di fatto, è Salieri, vero protagonista del racconto, di cui lo spettatore scopre l’io più intimo.

“Lee Miller” e l’occhio di chi guarda

La scelta registica è quella di narrare la vita della Lee Miller fotoreporter attraverso un biopic intervista. Una sorta di interrogazione, il cui obiettivo è tentare di esaminare il vissuto di quegli occhi- interpretati magistralmente da Kate Winslet – ormai stanchi, disillusi, arrabbiati, ma ancora ricolmi di vita. Quegli occhi che hanno visto la barbarie della guerra e che grazie alla macchina fotografica hanno potuto immortalarla in immagini, in testimonianze visive dal valore trascendentale.

“Le donne al balcone” tra Hitchcock e Sciamma

Nel film di Merlant (presentato a Cannes 2024) è sempre la donna ad indirizzare lo sguardo, a riappropriarsi del suo potere. Le tre amiche sono soggetti attivi di visione e di erotizzazione dei corpi e la regista francese (che ha scritto il film con Céline Sciamma, con la quale aveva già lavorato sul set di Ritratto della giovane in fiamme e alla sceneggiatura di Parigi, 13Arr. di Audiard) mira a scardinare una rappresentazione ovattata, tradizionale, della donna, per renderla tridimensionale.

“Dreams” nel labirinto del racconto

È un rilancio continuo di enunciazioni filmiche e verbali quello scelto dal regista norvegese Dag Johan Haugerud, fresco vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, per il suo Dreams orchestrato su tre piani: il piano delle immagini, quello del racconto – o dei plurimi racconti – in voce over e quello mutevole del rapporto fra le prime e il secondo, commento ad esse o loro emanazione, a tratti forse mendace.

“The Breaking Ice” come una delicata parentesi di vita

The Breaking Ice è la riconferma della cifra autoriale di Anthony Chen, regista singaporiano habitué di Cannes, nonché un’opera visibilmente ideata durante la pandemia. Il nervosismo dei personaggi è palpabile, esplicitato poco a poco, ma non sfocia in nulla più che innocue ragazzate e opportunità sensuali, poiché la reciproca compagnia non è vista come altro che un palliativo momentaneo a un’incurabile insofferenza esistenziale.

“Il caso Belle Steiner” e l’ambiguità del desiderio

Dopo un lungo blocco distributivo per le accuse di abusi sessuali rivolte al regista Benoît Jacquot, arriva in sala questa seconda trasposizione cinematografica che, come la prima, si prende notevoli libertà rispetto al giallo di Simenon, riuscendo, tuttavia, a ricrearne fedelmente l’atmosfera di buona borghesia di provincia e la sottostante oscura visione della vita. Merito soprattutto dei due attori principali, Guillaume Canet e Charlotte Gainsbourg, che offrono un ritratto misuratamente ambiguo della coppia Pierre e Cléa.

“La città proibita” speciale II – L’Italia multietnica di Mainetti

L’azione è girata con grande maestria, curata nei minimi dettagli, indice di un notevole gusto per lo spettacolo cinematografico e di una capacità di affrontare il genere con rigore, un approccio più comune alla serialità italiana contemporanea, piuttosto che alla sua controparte cinematografica. E infatti non stupisce che a firmare la sceneggiatura con lo stesso Mainetti ci siano Davide Serino e Stefano Bises, due tra gli autori più interessanti nella produzione seriale italiana degli ultimi anni.

“La città proibita” speciale I – Il cinema fusion

L’attenzione al contesto e la descrizione di una Roma “fusion” sono poi gli elementi più interessanti de La città proibita, e costituiscono il punto di forza della pellicola. Il regista ha la capacità di raccontare la città più inflazionata e rappresentata del cinema italiano in maniera inaspettatamente interessante e questo gli va riconosciuto. Purtroppo però, il tutto risulta poco organico nel mescolarsi con le dinamiche tipiche del cinema d’arti marziali, andando a minare concettualmente il senso di unione, di fusione appunto, che è alla base del film.

Hollywood in fiamme. Gli Oscar 2025 e l’industria che celebra sé stessa

La notte degli Oscar è un rituale sacro. Visto da fuori, è un evento magnifico: vestiti incredibili, discorsi emozionati (più che emozionanti), il meglio del cinema riunito in una sala. Ma se sei qui, su Hollywood Boulevard, capisci che è una festa costruita per chi è dentro, mentre il resto del mondo può solo sbirciare da lontano. Non c’è più il glamour anarchico degli anni ‘70, nessuna trasgressione alla Jack Nicholson o ai tempi d’oro di Marlon Brando. È tutto sterilizzato, controllato, perfettamente inquadrato.

Dante Ferretti parla. La bellezza imperfetta di Pasolini

Fra le tante collaborazioni con grandi registi da parte di Dante Ferretti, tre sono di più lunga durata e di maggiore profonda condivisione professionale: dal ‘64 al ‘75 Ferretti lavora con Pier Paolo Pasolini, dal ‘79 al ‘90 con Federico Fellini e dal ‘93 al 2016 con Martin Scorsese. E proprio al rapporto tra lo scenografo e Pasolini – che hanno collaborato per dodici anni realizzando otto film – è dedicato il recente volume edito da Pendragon, Bellezza imperfetta. Io e Pasolini, scritto dallo stesso Ferretti e curato da David Miliozzi.

“Il nibbio” tra azione e inchiesta

Indubbiamente, il regista Alessandro Tonda guarda anche al film d’azione che, come ha dimostrato con il suo debutto The Shift (2020), sa dirigere con la giusta attenzione al ritmo e alle sequenze più spettacolari. Un modello per Il nibbio è quindi la spy-story con girandola di location internazionali dove si alternano palazzi del potere e di sorveglianza globale e sporchi retrobottega in cui passano armi ed informazioni, resort di lusso e quartieri polverosi, catturati con la consueta tonalità seppia.

“I ragazzi della Nickel” e la macchina da presa come organo

Nickel Boys funziona così: come con raccapriccio veniamo informati della metodicità con cui i bianchi hanno voluto insegnare a una comunità già ridotta ai margini della società a essere grata di avere un tetto sopra la testa, così riconosciamo, svincolata dalla menzogna, un’amicizia di una sincerità sconfinata, raccontata con benevolenza ed empatia, restituendoci tutta la sua inimitabile eredità. Raccogliendo l’esempio di Elwood, anche RaMell Ross sa perfettamente di non valere meno degli altri.

“L’orto americano” e le oscure conseguenze dell’amore

Sospeso tra due mondi (dopo la trasferta oltreoceano con Il nascondiglio) come altri recenti film stranieri, avulso tuttavia da un’acuta disamina del contesto postbellico, L’orto americano persegue il regime filmico di uno sguardo alienato e dissociato, a cui si nega il controcampo del dettaglio osservato, in una rivelazione sempre differita o delegata, nel fuori campo della morte che attrae e atterrisce, in una distanza siderale tra il reale e il vero, che si riduce solo in quella malsana purezza di visione che è la follia negli occhi dell’altro.

“Hokage” e la maturità di Tsukamoto

Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, questo monumento della cinematografia nipponica conferma di conservare intatto il proprio spirito inquieto e l’approccio sperimentale alla base della sua sensazionale carriera registica. Ombra di fuoco, si presenta però anche come un’ulteriore prova di come Tsukamoto, in quella che potrebbe essere definita come una nuova fase di maturità, riesca ad arricchire la propria anarchica visione del cinema di elementi nuovi e sorprendenti.

“Mickey 17” speciale III – Da pindarico a ordinario

Mickey, tratto dal romanzo Mickey 7 di Edward Ashton e interpretato da Robert Pattinson, è condannato dal suo morire continuamente a soffrire senza poter morire mai, e trattato dagli altri come se la sua vita non avesse nessun peso, perché non lo ha la sua morte. In lui Bong trova il perfetto exemplum per stigmatizzare fenomeni che chiaramente gli stanno molto a cuore, come l’iniquità sociale e le storture del capitalismo, dal fronte orientale a quello occidentale.

“Mickey 17” speciale II – Il cinema multiplo

Nonostante Bong abbia confermato di aver avuto il final cut, smentendo in parte le voci che parlavano di scontri con la Warner, i rinvii legati agli scioperi hollywoodiani e le reazioni critiche tiepide hanno comunque gettato un’ombra su quello che doveva essere il suo grande ritorno dopo il trionfo di Parasite; un’aria di fallimento cui oggi si somma quello politico delle ultime elezioni Usa, rispetto a cui Mickey 17 si mostra insieme profetico e tragicamente sconfitto dalla storia.

“Mickey 17” speciale I – Il parossismo della disuguaglianza

Ritorna il tema della diseguaglianza sociale, qui portato al parossismo, così come l’ambientazione si-fi innevata, il simbolismo legato al cibo, la mutilazione fisica. Non mancano momenti di tensione e di crudele ironia, ma il mood complessivo dell’opera disinnesca a priori qualsiasi aspettativa di tragicità e la trama scorre senza intoppi né lungaggini, passando attraverso scenografie di tutto rispetto verso un finale pulito, soddisfacente e insipido.