“Il giorno dell’incontro” e il pathos del corpo

Huston si rifà al bianco e nero e alla fisicità del capostipite Toro scatenato, paga tributo – similmente a Scorsese – all’estetica televisiva del tempo che fu, poi durante il match finale ingaggia la macchina da presa in un corpo a corpo brutale sconfinante nella soggettiva come Warrior e infine fa cadere al tappeto i due contendenti contemporaneamente alla maniera di Rocky e Apollo, con solo uno dei due che riuscirà a rialzarsi.

Cronaca di un’estate portoghese. “Aquele Querido Mês de Agosto” di Miguel Gomes

A metà tra il documentario e la fiction, Aquele Querido Mês de Agosto appare fin da subito un lavoro cinematografico insolito, che condivide nelle intenzioni e nelle suggestioni un certo modus operandi, sperimentato nei capolavori della Nouvelle Vague e nel cinema portoghese contemporaneo più innovativo. Premiato in numerosi festival internazionali, il film di Gomes risulta un’anomalia cinematografica, una visione sulle ali di “un’estetica della superficie”.

“Solo per una notte” senza alcun pregiudizio

Con Solo per una notte, Rappaz sperimenta il potere di raccontare una donna, forte nella sua fragilità e fragile nel suo amore. Il film non ammette alcun pregiudizio nei confronti di Claudine e forse, questo è proprio l’elemento di scrittura più sofisticato. La possibilità di amare contemporaneamente più cose; ecco la spiegazione che Claudine dà a Baptiste quando le chiede il significato di eclettico, finendo per codificarsi come la chiave prolettica della sua storia.

“Picnic a Hanging Rock” tra esistenzialismo e horror

Alle atmosfere sospese e allucinate (in inglese diremmo eerie) della prosa di Lindsay, il giovane regista arriva coi mezzi puramente filmici che gli mette a disposizione la cultura cinematografica del suo tempo: da un lato l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono della narrazione lineare tipici di un certo modernismo europeo alla Antonioni; dall’altro l’aggressione sensoriale – colonna sonora prog/sinfonica, montaggio forsennato, continue dissolvenze – dell’horror in voga a metà anni Settanta, Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e inquietante. 

“L’orchestra stonata” e la commedia delle diversità sociali

Lo stile cinematografico teso e sotteso di Courcol dimostra piena padronanza nella progressione degli sviluppi e dei cambi repentini che scandiscono il film, che oscillano tra commedia e dramma proprio come un metronomo. Allo stesso tempo, la sottotraccia di quel filone operaio interno – molto caro al cinema francese – non smette mai di suonare, anzi, percuote prepotente nel tentativo finale di allestire un’orchestra diretta da Thibaut all’interno della fabbrica occupata (e destinata a chiudere) dagli amici e dai compagni di banda di Jimmy.

“Grand Tour” speciale III – L’ultimo spettacolo alla fine dell’impero

In tempi più vergini di immagini, le prime riprese cinematografiche di terre esotiche rappresentarono per molti spettatori il primo sguardo su mondi lontani, accorciando le distanze, come già fece la ferrovia. Ma nel cinema di Miguel Gomes i binari narrativi che promettono di ricongiungere direttamente questi mondi sono inaffidabili, il treno è destinato al deragliamento, la narrazione alla divagazione.

“Grand Tour” speciale II – La Storia come “objet trouvé”

Il cinema di Gomes circumnaviga il mondo e così si gioca un’utopia tutta sua: non si accontenta di esistere in una porzione circoscrivibile di realtà e di assomigliarle, ma scommette di far accadere in quello spazio fisicamente limitato – più che lo schermo di per sé, quanto sta tra la macchina da presa e lo schermo, la distanza che ogni giorno, ogni notte, chissà quante volte un proiettore trasforma in un fascio di luce – un ulteriore pezzo di mondo che prima non c’era, e nel farlo ne inventa le regole per poi sempre stravolgerle.

“Grand Tour” speciale I – Dal cinema delle origini all’immaginario fantastico

Come uno dei primi cameramen inviati nel mondo dai fratelli Lumière, Miguel Gomes realizza una somma di vedute che fondono il passato con il presente, la leggenda con la realtà, e che ampliano l’immaginario cinematografico e tematico del regista portoghese. L’opera vincitrice del premio per la miglior regia a Cannes racchiude in sé molteplici discorsi – colonialismo e post-colonialismo; orientalismo; cinema delle origini; meta-cinema; livelli diegetici – celati dietro una storia d’amore impossibile.

“La stanza accanto” speciale III – Abitare gli ambienti in pacifica attesa

Abbandonato ogni sentimentalismo mediterraneo, l’irriducibile human voice del settantenne Almodóvar rappresenta le donne di La stanza accanto quali entità cui vedere attraverso, come lo sono per Ingrid e Martha le vetrate dell’ospedale, del cinema di New York in cui guardano Viaggio in Italia e della casa in cui si ritirano per ammazzare letteralmente il tempo che le separa dal saluto. Guardando classici del cinema sullo schermo (vetro) della tv.

“La stanza accanto” speciale II – L’amico come testamento

Il regista ci ripropone il gusto, già presente nelle sue ultime  pellicole, per una composizione delle inquadrature sempre più studiata, geometrica, dominata da colori squillanti e contrastanti (qui i complementari rosso e verde con incursioni di giallo, blu e viola accesi) e tinge nuovamente il melodramma di sfumature hitchcockiane  – dalle sequenze di Ingrid che sale la scala per spiare la porta rossa a quelle finali dalle tinte thriller, fra costruzioni di alibi e interrogatori – sottolineate dalla musica, a tratti ossessiva, di Alberto Iglesias.

“La stanza accanto” speciale I – L’umanità fredda

La stanza accanto è un film a due voci (solo sporadicamente include un terzo personaggio consistente, interpretato da John Turturro), a tratti quasi una pièce teatrale, in virtù della pervasività dei dialoghi tra le due donne che vanno a comporre una vera e propria dissertazione sulla morte. Almodóvar realizza una sceneggiatura densa, capillare, razionale e profondamente analitica che viene umanizzata dalla bravura delle due attrici protagoniste.

“Il corpo” e il vortice del dubbio

Tra le ipotizzanti congetture e gli indizi sparpagliati che si raccolgono compiutamente alla fine (come in ogni buon thriller) il meccanismo formale vincente della storia è la tecnica narrativa conosciuta come aringa rossa. Quest’ultima può essere ascritta come un depistaggio cinematografico che induce a costruire una specifica versione della storia e accreditarla come veritiera per far perdere l’orientamento allo spettatore e coglierlo del tutto impreparato sul gran finale.

“Piccole cose come queste” tra oscurità e penombre

Piccole cose come queste non accompagna per mano lo spettatore in una esaustiva rappresentazione dello scenario storico, non illustra punto a punto tutto ciò che ora si sa in merito, ma procede per ellissi e non detti, lascia trapelare elementi slegati, mette dubbi e li lascia macerare pian piano, ponendo lo spettatore nei panni di Bill e di chiunque di trovasse allora ad osservare la situazione dall’esterno.

“La donna di Parigi” miglior film dell’anno

In periodo di classifiche di fine anno è sorprendente scoprire che La donna di Parigi di Charlie Chaplin, del 1923, svettava in cima alle liste di due rinomati critici americani, Andrew Sarris e Molly Haskell, nell’anno… 1976! In occasione dell’uscita del cofanetto edito dalla Cineteca di Bologna, riportiamo due brani dal libretto che accompagna il film, il primo tratto dall’introduzione della curatrice Cecilia Cenciarelli, il secondo, appunto, l’articolo di Andrew Sarris che eleggeva Chaplin a trionfatore tra le proposte cinematografiche di quell’anno.

“Freud – L’ultima analisi” tra fede e ragione

Sono alcuni elementi a salvare Freud – L’ultima analisi dalle insidie del didascalismo, aiutati dal misurato Matthew Goode e da un Anthony Hopkins sempre mirabile: alle prese con un personaggio non facile da inquadrare (ci hanno provato in molti, da Montgomery Clift a Viggo Mortensen, passando per il Remo Remotti edipico di Sogni d’oro), restituisce a Freud sia la fragilità della malattia che la forza di un intelletto ancora lucido, di uno spirito combattivo e dispoticamente intransigente.

“Blitz” teso verso il bene comune

A differenza di Nolan, è evidente che a McQueen non interessano i dubbi amletici del soggetto. Il montaggio non emerge da una psiche frastagliata, ma da una realtà frammentata, intrisa di divisioni e conflitti, su cui è essenziale prendere posizione. Per questo, il film si popola di figure talvolta monodimensionali, quasi caricaturali, eccessivamente sentimentali, ma che, nel momento della catastrofe, non si fermeranno nel panico a ponderare il bene e il male; si muoveranno, invece, per il bene comune, compiendo un gesto liberatore.

“Went Up The Hill” alla disperata ricerca di calore

Went Up The Hill (presentato al Torino Film Festival 2024) si fa carico del tutt’altro che semplice proposito di inscenare un dialogo tra il presente e due versioni sovrapponibili di un passato che continua a produrre traumi e lo fa tramite istanze comunemente ascrivibili ai generi dell’orrore, ma con intenti differenti. C’è uno spirito inqueto che aleggia sui personaggi, un’anima ormai scollata dalle sue spoglie terrene che si introduce nei corpi viventi dei protagonisti per utilizzarli come medium al fine di comunicare a fasi alterne con entrambi

“Le déluge” e l’altra faccia della Storia

Si tratta di una discesa demoniaca raffigurata attraverso il codice espressivo dello spazio, che racchiude in sé la deposizione del potere monarchico e la svestizione simbolica del re e della regina in comuni cittadini che si aggrappano alla speranza di essere assolti nel processo che li dichiarerà poi colpevoli contro la sicurezza generale dello Stato. L’elemento formale che crea l’autentica rivoluzione del film è il ribaltamento di prospettiva, l’altra faccia della medaglia che ricorda alla Storia di includere tutti i punti di vista, non soltanto quello dei vincitori.

“Isla negra” e il cataclisma dei sentimenti viscerali

Isla negra è un dramma slow burn che in quanto a tensione narrativa ricorda il potentissimo As Bestas di Rodrigo Sorogoyen, al fine di inscenare un conflitto verticale tra classi differenti à la Parasite di Bong Joon-oh. In questo caso, però, il confronto non si estranea dal contesto in cui è collocato, non diviene mai archetipo, ma rimane ancorato a dei volti che si fanno carico di un dolore specifico.

“Napoli-New York” fiaba semplice con pennellate di critica sociale

Tolta l’insistita critica al classismo, il tono complessivo dell’opera è fiabesco e positivo, spesso divertente, dickensiano con ben dosati climax di amarezza e tragedia. Ottime anche le interpretazioni dei giovanissimi protagonisti, Dea Lanzaro e Antonio Guerra, la prima nei panni di una bambina sensibile quanto agguerrita, il secondo in quelli di un irresistibile furbetto, un orgoglioso e cocciuto maestro nell’arte di arrangiarsi.

“Eight Postcards From Utopia” e lo specchio agghiacciante di Radu Jude

Radu Jude colpisce ancora. Eight Postcards From Utopia è un distillato di satira efficacissimo, che non cerca l’imposizione una morale, ma la stimola genuinamente costringendo il pubblico a misurarsi con l’oscenità. Un’oscenità diffusa e quindi socialmente metabolizzata, ma qui riproposta e visualizzata unicamente per quello che è. Uno specchio tristemente veritiero del reale, in tutta la sua agghiacciante banalità.