Ascoli 1938 - Luciano (Riccardo Scamarcio) è il proprietario di un ristorante affacciato su Piazza del Popolo, un reduce della Grande Guerra, simpatizzante del Regime, un eroe zoppicante nel corpo e nell’anima a cui la guerra ha già cambiato la vita una volta. Un giorno, fuori dalla vetrata del suo locale, si presenta Anna (Benedetta Porcaroli) una ragazza, evidentemente affamata e in difficoltà, a cercare un lavoro. Luciano la assume come cameriera factotum e da subito risulterà evidente la cultura della giovane donna e il suo essere non convenzionale. Tra i due si instaurerà un rapporto molto particolare.
Con L’ombra del giorno Giuseppe Piccioni gira un film che torna a parlare di fascismo, ma lo fa con una attenzione particolare alla possibile rilettura della storia in chiave attualizzante, suggerendo un unico comun denominatore fra due epoche storiche (i primi anni ‘40 del ‘900 e l’oggi) quasi involontariamente affiancate in un parallelismo emotivo/cognitivo, quello di un esasperato conformismo portato alle estreme conseguenze. Del resto L’ombra del giorno è stato girato durante il lockdown 2020 in un'Ascoli deserta, rappresentata dalla grandezza monumentale di una delle più belle piazze rinascimentali, piazza del Popolo appunto, che qui assume un sapore quasi internazionale.
Da subito si impone come coprotagonista trasparente, ma non invisibile del film, la vetrata del ristorante di Luciano, una vetrata che fa da confine tra ciò che avviene dentro il ristorante, e nelle vite private delle persone, e ciò che accade fuori, nella dimensione pubblica, in piazza. La piazza vuota in cui risuona, via radio, la voce del Duce durante la dichiarazione di guerra, la piazza movimentata dalle auto dei gendarmi fascisti che scorrazzano per la città o adornata dalle esibizioni pubbliche delle ginnaste balilla (sui pattini, con il cerchio, con una “M” di Mussolini stampata sui loro maglioncini bianchi): è la piazza della propaganda fascista, in questo caso una propaganda rivolta a masse assenti e/o informi (per motivi extradiegetici, a causa del lockdown, le scene di massa con numerose comparse sono impossibili da girare), che dunque assume un sapore quasi satirico per l’assenza visiva del suo interlocutore finale, il popolo.
Così tutti gli snodi principali della trama si sviluppano intorno alla invetriata, il film è pensato e forse anche scritto attraverso un vetro, la grammatica fotografica scelta dal regista per esprimere il suo punto di vista si nutre di luccichii, sfocature, bokeh (effetti sfocati appunto) che sottolineano costantemente le zone contenute nei piani fuori fuoco oltre alla qualità estetica e narrativa della sfocatura stessa. Piccioni fa un utilizzo creativo molto sapiente delle proprietà ottiche degli obiettivi.
Ottenendo così che la resa dello sfocato in questo film ci parli di ciò che resta appannato dietro ad un vetro o dentro l’animo delle persone che vivono la storia e se ne rendono partecipi con le loro piccole azioni quotidiane. Che sia la vetrata di un esercizio commerciale di un simpatizzante fascista ad appannarsi, o che si tratti di un plexiglass dei giorni nostri innalzato a separare la gente, i respiri, a proteggere dall’effetto droplet di una nuova emergenza sanitaria, fa poca differenza.
Grazie a questi effetti ottici, e alla interpretazione ariosa ed affiatata dei protagonisti (per niente cupa come ci si aspetterebbe dal tema trattato) il film risulta come rivestito di una patina velatamente ironica, è come se riuscisse a restituire attraverso la sua ottica il modo in cui gli italiani vissero immersi nel fascismo degli anni ‘30/’40 quasi senza rendersene conto, tramite una prospettiva offuscata (come spesso accade) dalla impellenza delle esigenze di sopravvivenza quotidiane, quando non dalla propria convenienza di esseri umani in guerra.
Verso la metà del film il personaggio del professore (Antonio Salines) dice una frase esemplificativa del suo nucleo semantico, in cui espone una rapida teoria della giustizia citando Sofocle e la tragedia dell’ Antigone basata sull’inconciliabile conflitto tra la legge umana e una legge superiore, ovvero tra la “giustizia secondo la legge" e la "giustizia al di là della (o contro la) legge” e, a proposito del fatto di essersi sentito costretto a prendere la tessera del Partito per continuare a lavorare, cita Kant e il suo invito a trasgredire una legge ingiusta che dovrebbe diventare un obbligo, in certi casi. Queste parole risuonano pesantemente in un’epoca conformista e confusa come quella del mondo (post) pandemico.
Il film esprime un sentire comune che allaccia una sorta di strana sintonia tra l’epoca fascista e quella pandemica. Il trait d’union è costituito dalla vetrata simbolo delle apparenze. Il protagonista è solo apparentemente un fascista. Questo sarà il suo segreto svelato. Dice di essere fascista, ma non c’è niente di fascista in quello che fa.
Come il protagonista, ciascun personaggio ha le sue ombre e dissimula una identità che scopriremo non essere la sua. L’ombra del giorno è un film fatto di segreti, passati al vaglio da una lente di ingrandimento che non li mette sul banco degli imputati, ma piuttosto è usata per mettere il fuoco sull'umanità del singolo. Per non dimenticare che a fare la storia sono le storie di ognuno di noi. Quando la vetrata nel film verrà infranta, i segreti, i giochi delle parti, rischiano di essere scoperti. Sarà allora l’umanità di ciascuno a scrivere un finale inatteso.
In un'atmosfera di suspense recitata con sfrontata freschezza da Porcaroli e Scamarcio, il personaggio di Anna è capace di dare una luce nuova all’attore pugliese, riaccendendolo di un guizzo primitivo tra il comico e il romantico. I due son capaci di farci sorridere dei loro guai e anche dei nostri, e di ricordarci tra le loro lacrime che a tutti piace sognare, anche quando di spazio per i sogni e le promesse nella realtà non ce n’è.