Quando Luigi Pirandello scrisse Vestire gli ignudi nel 1922, i temi trattati dalla commedia potevano risultare quantomeno scabrosi. Storia di Ersilia, giovane istitutrice della figlia di un console, che, dopo una delusione amorosa, finisce tra le braccia del suo datore di lavoro mentre la bambina cade nel vuoto, è un’aspra e dura catabasi che tocca argomenti come la prostituzione occasionale, il tradimento coniugale, il senso di colpa, la ricerca di un’identità accettabile al mondo.
Nell’adattare la pièce per il grande schermo, Ennio Flaiano ne sfrutta al meglio la componente morbosa spostando l’azione all’Italia del dopoguerra e trova in Marcello Pagliero un regista adeguato al compito. Sullo sfondo di una torrida Roma estiva praticamente vuota, Vestire gli ignudi è un film pressoché dimenticato, con qualche affinità con il coevo filone melodrammatico che ha in Vittorio Cottafavi un maestro indiscusso.
Difficile non trovare concordanze e corrispondenze tra questo adattamento pirandelliano – quindi un’opera sulla carta coi crismi della rispettabilità – e film meno pretenziosi ma oggi ritenuti non a torto superiori come Una donna libera o Nel gorgo del peccato. E considerando anche Tre storie proibite di Augusto Genina (specie l’ultimo episodio interpretato proprio da Eleonora Rossi Drago, qui Ersilia) e il migliore La spiaggia di Alberto Lattuada potremmo parlare di una via italiana (piccolo-)borghese al women’s film che non teme di mettere in scena figure femminili dalla discutibile moralità.
Apparso pochi mesi dopo lo scoppio del caso Montesi, Vestire gli ignudi sembra risentire dei contraccolpi della vicenda a livello magari inconscio, trovando nella protagonista una figura di vittima che, al di là dell’adesione intimistica, sembra dover scontare non tanto i peccati commessi quanto quelli ai quali concorre involontariamente o meno. È chiaro che la vicenda di Ersilia ha in sé queste evocazioni, con gli umori inquieti fibrillanti in una società tanto appassionata alla cronaca nera narrata nei rotocalchi popolari quanto compatta nel votare democristiano.
Pur concedendosi qualche ghiribizzo autoriale specialmente nelle profondità di campo e nei primi piani fortemente espressivi, Pagliero mette in scena con una trasparenza che confina con un pallido oggettivismo, forse più interessato ai sottotesti politici, etici e morali della vicenda che agli snodi narrativi. Può altresì contare sulla chimica tra l’altera, fragile, splendida Rossi Drago e Gabriele Ferzetti, che costituiscono una coppia dotata di una mesta eleganza borghese (ripresa da Michelangelo Antonioni ne Le amiche).
Sottolineato dall’incessante e talvolta tedioso commento musicale di Franco Mannino, Vestire gli ignudi appare oggi un po’ datato ma merita una visione per una gustosissima battuta di Ferzetti: scrittore di grido, prossimo al Nobel, affascinato dal “romanzetto rosa” incarnato dalla parabola di Ersilia, butta lì un “detesto Moravia” che sembra farina del sacco del beffardo Flaiano.