Ha ancora senso oggi parlare di Moravia? Gli autori del primo Novecento, che ritraevano una società in cui l’immutabilità delle strutture sociali sembra stonare con un presente in imprevedibile evoluzione, ci donano ancora contenuti validi per interpretare gli eventi dell’oggi? Vale la pena concentrare l’attenzione su un mondo quiescente e decadente da decenni come quello alto-borghese? Il numero di domande, più o meno provocatorie, che il confronto con un’opera prima come Gli indifferenti suscita nel lettore odierno, non è certo risibile. Arriva un momento in cui quasi ogni prodotto letterario – classici compresi – perde l’aderenza con il presente storico. Ma se alcune opere sono ormai segnate da una distanza incolmabile rispetto alla contemporaneità, Gli indifferenti porta in grembo, grazie anche alla sua matrice esistenzialista, alcuni scorci e taluni tratti caratteristici che si accordano bene alla nostra quotidianità. Deve aver pensato qualcosa di simile Leonardo Guerra Seragnoli, che per il suo terzo lungometraggio si è misurato con il romanzo in questione, trasponendolo proprio ai giorni nostri: un adattamento complicato e coraggioso, perché coniugare il confronto con un caposaldo della letteratura italiana e allo stesso tempo coglierne i suoi tratti di continuità storico-sociale era un’operazione in qualche modo rischiosa. L’abbiamo raggiunto virtualmente, per porgli tutte le domande del caso.

 

Buongiorno, Leonardo. Da dove parte l’idea di riportare al cinema Gli indifferenti di Moravia?

Mi sembrava che Gli indifferenti potesse ancora parlare della nostra società. Il sentimento dell’indifferenza era per Moravia una sorta di dimenticanza della realtà, un “guardare solo sé stessi” rifiutando l’esterno. Trovo che questo tema, centrale nel romanzo, sia molto contemporaneo: il trovarsi sul bordo di un precipizio e far finta che questo non ci sia, che tutto sia in ordine e senza sbavature. Un tipo di attitudine alla vita che caratterizza soprattutto le classi sociali agiate, concentrate solo su loro stesse e non su quello che gli succede intorno. Anche se il romanzo è stato scritto nel ‘29 e racconta di un’Italia che stava per misurarsi con l’avvento del fascismo, quando Salvini nel 2018 correva a spada tratta dicendo “conquisto Roma”, mi è sembrato che la modalità di ottenere il potere e di conservarlo a tutti i costi non fosse cambiata nel tempo. Mi interessava indagare le modalità attraverso cui l’indifferenza si palesa oggi, partendo da un contesto politico in cui delle fazioni antitetiche si mettono a governare come se fossero sedute intorno a una grande tavolata. La farsa e l’accettazione di una realtà inaccettabile sono questioni non troppo distanti. Viviamo in un sistema dove tutto un po’ galleggia, dove devi farti giustizia da solo, in qualche modo. Per esempio, a Roma, dove vivevo, un locale, pagando i vigili, faceva parcheggiare le macchine davanti ai garage e tu cittadino, pur avendone diritto, non potevi rientrare in casa la sera. Si tratta chiaramente di un piccolo esempio ma, crescendo in Italia, ho sempre sentito un enorme senso di frustrazione nei confronti di un sistema fondato su questi presupposti. Nel romanzo i giovani vi accedono in maniera naturale, ma con il personaggio di Carla ho cercato di operare una trasformazione, ho cercato di dire che esiste una via d’uscita. E poi, la mia riattualizzazione pone l’accento anche sul tema dell’ipocrisia come archetipo familiare nonostante una parte della critica sostenga che, in questi termini, la borghesia non esista più. Per il mio modo di vedere le cose, sopravvive eccome, anche se in una forma diversa rispetto a quella raccontata da Moravia. È certamente più mistificata ma ancora sistemica; si aggrappa, con le unghie e con i denti, a quello che le permette ancora di sopravvivere. Ho voluto indagarla con uno sguardo trasversale partendo dalla tendenza generale a voler mantenere inalterati gli equilibri economici e psicologici che la contraddistinguono, non tanto per una mera risonanza politica, ma per una questione che a che fare con i fattori umani. Tutti noi, vivendo in una società disordinata, ci sforziamo di darle un ordine apparente. È un atteggiamento profondamente umano che non può che essere universale.

Trasporre sullo schermo le digressioni degli indifferenti non era di facile impresa. Puoi dirci se la scelta del cast ha risentito di questa sfida?

Raccontare per immagini senza risultare didascalici è la cosa più difficile del fare cinema. Bisogna partire dal fatto che i personaggi del romanzo sono negativi, respingenti. Manipolando il tempo del racconto attraverso le digressioni, Moravia è riuscito a smussare la resistenza di cui sono portatori, è riuscito a scavare nelle loro interiorità, andando oltre la maschera, oltre l’ignavia, oltre l’indolenza. La sfida della sceneggiatura è stata quella di cercare un modo per rendere questi antieroi abbastanza fragili da incuriosire lo spettatore. Con Alessandro Valenti, lo sceneggiatore del film, abbiamo puntato a una restituzione dei personaggi fondata non sulle gerarchie ma sugli equilibri. Per raggiungere questo obiettivo, ho girato scene in cui compaiono da soli, chiusi nel loro mondo. Mi serviva un espediente per trasformare in immagini la loro intimità, gli unici momenti in cui buttano giù la maschera: Maria Grazia che parla al telefono con lo psicomago/psicologo, Carla che gioca davanti allo streaming. Bisognava creare uno scarto rispetto alla dimensione negativa e collettiva in cui si muovono; per alimentarlo, ho scelto attori imperfetti. Volevo andare contro gli stereotipi. Non tutti gli attori sono disposti a fare Leo, per dire. Ho avuto anche dei no da alcuni attori che non se la sentivano, prima di arrivare a Edoardo Pesce, la scelta più giusta che potesse avvenire.

Rispetto al romanzo di Moravia, la tensione sessuale nel film è quantomeno più esplicita…

C’è da fare una precisazione: l’erotismo degli anni ’20 sapeva di tabù, e dunque la pulsione erotica era più forte del thanatos. Spesso il romanzo si legge secondo una chiave inesatta credendo che non sia stato dato spazio all’eros. Ma è un racconto che aleggia, soprattutto, intorno al desiderio. Al contrario, nel mio film tutto è thanatos, i coiti sono già avvenuti, la pulsione sessuale è svuotata di senso.  Mi interessava mettere in scena questa sorta di psicologizzazione dei rapporti umani che ha sottratto il posto alla tensione amorosa vissuta nella sua autenticità. Lisa e Michele fanno l’amore ma non c’è niente in quello che creano. Si tratta di una sessualità intesa come fuga dalla realtà aggiunge un altro piano di lettura agli indifferenti di oggi.

Uno dei grandi temi del romanzo di Moravia è quello dell’incomunicabilità. Michelangelo Antonioni è riuscito a tradurlo in racconto cinematografico con la sua Trilogia. Che tipo di lavoro hai fatto su questo tema?

All’epoca, il tema dell’incomunicabilità non fu veramente compreso perché percepito troppo all’avanguardia. Ma è un altro tema archetipico, che mi porto dietro dai miei primi lavori, perché ha a che fare con la condizione dell’essere umano: non trova espressione e significato solo nell’ambito di un determinato periodo storico. Di fatto nel mio penultimo film Likemeback in cui parlo dei social media è assolutamente centrale. Per me costituisce il senso del comunicare, del riuscire a entrare nell’azione con l’altro. L’altro siamo anche noi stessi.

Rispetto all’incomunicabilità descritta da Moravia, nell’attualizzazione del film c’è anche una sfaccettatura in più, quella dello scontro generazionale. L’incapacità di Mariagrazia di comprendere le aspirazioni da gamer della figlia Carla, per esempio. Senza scadere in una banalizzazione della dialettica millennial-boomer, c’era una volontà di inserire con maggior spessore questo tema?

 Assolutamente sì. Il film si nutre della trilogia non ufficiale di Moravia, che comprende La noia La vita interiore. Michele è anche Dino; Carla la ritrovi in Cecilia, in Desideria. Ne La vita interiore lo scontro generazionale costituiva comunque un topos anche se erano gli anni di piombo, un periodo storico del tutto diverso da quello del fascismo. Riportando all’oggi il percorso evolutivo descritto nelle opere di Moravia, il senso di frustrazione di cui parlavo prima non è scomparso, anzi, è uno dei problemi principali della nostra società. Soprattutto in Italia, c’è una generazione che non ammette trasformazioni in un sistema che di fatto non lascia spazio alle nuove generazioni. I giovani che si esprimono con nuove idee non sono contemplati nel romanzo perché il ricambio non avveniva: a un certo punto prendevano il posto degli adulti, imitandone gli stereotipi. Mi piaceva perciò l’idea di mostrare, al contrario, l’emancipazione giovanile contemporanea, partendo da una ricerca sulle realtà eticamente autogestite, nella fattispecie, quella dei gamer. Carla davanti allo schermo non sta perdendo tempo ma sta conquistando la sua libertà, lasciandosi alle spalle il ruolo dell’antieroina. L’unica che, alla fine, riesce a smuovere le acque, a cambiare le cose.

Ti sei per caso lasciato ispirare dalla danza tribale di Monica Vitti ne L’eclissi di Antonioni per la scena in cui Maria Grazia si concede al “ballo liberatorio”?

Forse ci sono delle tracce della danza nella storia del cinema, che ho riversato inconsciamente nel film. Anche a Fellini erano care queste dinamiche “danzanti”. Emblematica la scena de La dolce vita, in cui si balla nel vuoto. Trovo che la danza sia il modo che hanno i personaggi di perdere il controllo, di andare al di là della propria natura. Per gli Ardengo che ho voluto mettere in scena, la danza è il mezzo per essere altro, per impossessarsi di ciò che, di norma, non riescono ad assorbire. Avere qualcosa dentro e non riuscire a tirarlo fuori se non in queste “sospensioni” ha qualcosa di tragico, di ineluttabile.

Ci sono altre fonti di ispirazione a cui hai dato voce nel film?

Ho inserito moltissime opere d’arte che mi piacciono. Mi sono ispirato a un’opera fatta da Olafur Eliasson nel 2011, per la scena sul ponte in cui si vedono delle sculture romane dall’espressione tragica mentre Michele passeggia, così come ho citato Him di Cattelan. Dal momento che prediligo il cinema dell’invisibile, ho cercato di connettere i vari piani dell’arte partendo da un romanzo che è denso di riferimenti pittorici, culturali, artistici. È stato il mio modo di trasporre in racconto cinematografico tutto quello che ho assorbito dal dialogo instaurato con Moravia, con la sua opera ma anche con tutto quello che amava. Un dialogo nel tempo e con il tempo. Mi sono chiesto come avrei potuto raccontare De Chirico; forse con una ripresa dall’alto dell’Altare della Patria, mi sono detto. Avendo visto tanti film, sicuramente ho assorbito e inconsciamente restituito. Evocare e trasporre sono verbi che mi piacciono: con la ricollection, per usare un’espressione inglese, è come se avessi spinto in avanti il romanzo. Lo porti a oggi, ma ha con sé la cultura, i detriti, le citazioni, tutto ciò che si porta dietro nel trasporlo in qualcos’altro. Se vengono fuori le tracce di questi vasi comunicanti, sono felice.

La casa ai Parioli è centrale perché la si sente interagire “attraverso il suono” con le vite dei personaggi. Quando il pavimento scricchiola per le scosse di assestamento, sembra che stia affondando, con gli altri, nell’indifferenza.

La casa è un altro personaggio. Ha in sé delle contraddizioni, proprio come gli indifferenti della storia. Non soltanto è al centro del contenzioso ma da un punto di vista simbolico rappresenta il bene primario per eccellenza. Perdere la casa per gli Ardengo significa perdere tutto, significa toccare il fondo, non essere più niente: “Se perdo anche la casa, nessuno mi amerà più”, dice il personaggio di Maria Grazia a un certo punto del film. Per renderla umana e contraddittoria, era necessario creare delle stratificazioni partendo sia da un ragionamento sul sonoro che sulla parte scenografica. La cucina, scarna e modesta, anche se passa quasi inosservata, sembra cozzare con lo stile barocco degli altri ambienti. È assolutamente lecito leggerla non solo in termini di un mero spazio fisico, ma come un corpo con una vita propria. Ho cercato di darle un’anima affinché lo spettatore potesse percepire tutti i piani semantici e stilistici che volevo avesse.

Guardando il film, vengono in mente certe storie medio borghesi dove però il ritratto della crisi non è mai troppo amaro. Il tuo lavoro, di contro, si piazza agli antipodi di questo tipo di rappresentazione. Come la prenderesti se la critica ti definisse come una sorta di anti- Muccino del cinema italiano?

Definirmi l’anti-Muccino o lo pseudo-Guadagnino (come è stato fatto) potrebbe voler dire che chi guarda i loro film non potrebbe vedere i miei. Invece la bellezza del cinema sta nel fatto che ti permette di vivere un’esperienza soggettiva, per questo vorrei  che il mio lavoro stesse accanto a quello degli altri. Se preferisco raccontare la borghesia dall’interno, senza stereotipare né edulcorare, non sto esprimendo un giudizio di valore negativo rispetto a chi opta per altri tipi di approccio. Io sono l’amore, per esempio, è un film che scruta il mondo borghese dall’esterno; il mio sguardo, invece, parte da una realtà che in parte conosco. Ci sono alcune scene, come quella della cena con gli industriali, costruite un po’ “by the book”. Per operare uno scavo nel reale e per cercare di restituirlo nella sua essenza, invece, ho bisogno di stare in mezzo alle cose; devo accorgermi di quello che succede: è quasi un esercizio spirituale. Ma fate voi, se la critica crea degli tsunami, aggiunge sempre un senso ulteriore.

 

a cura di Yannick Aiani e Ludovica Soreca