Araya (1959) è un documentario talmente intimo che sembra girato dagli stessi abitanti della penisola venezuelana dove questa storia si ambienta. Parlare di storia non è fuori luogo, poiché, nonostante l’intento antropologico, questo film prende le forme di un racconto umano e personale, identificando i suoi protagonisti con nomi, famiglie, storie e relazioni che, anche quando sono appena accennate, danno tridimensionalità e autenticità a questo mondo che ci sembra così lontano. Un mondo regolato solo ed esclusivamente dal cibo e dalla fatica del lavoro, strettamente collegati ed essenziali. La ciclicità dei gesti della pesca e della lavorazione del sale viene rafforzata dalle ripetizioni nel racconto della voce narrante che ci accompagna per tutto il film e dalle lunghe panoramiche che avvolgono i movimenti dei lavoratori.
Questo documentario è anche politico, in quanto introduce una riflessione sul peso del lavoro fisico, su quanto distrugga il corpo e la mente degli abitanti (capaci però sempre e comunque di trovare un momento di pace nelle chiacchere coi vicini o nella cura dei propri bambini), ma anche sull’introduzione delle macchine, della modernizzazione che dovrebbe liberare l’uomo, ma che minaccia di privarlo di quel ritmo acquisito in secoli di lavoro e di trasmissione del sapere. Il territorio di Araya è per altro una terra povera, da cui tutto il sostentamento viene dal mare, in netto contrasto con l’arida immobilità della terra. Che faranno quindi queste persone? Come cambierà il ritmo della loro vita e soprattutto la loro libertà? Un tema che in quegli anni è stato pervasivo in tante opere cinematografiche, tra cui anche ne Il Mulino del Po, realizzato una decina di anni prima e presentato proprio qui a Bologna in questi giorni: un film che ha brillantemente messo in luce tensioni e contraddizioni nel progresso e nella lotta per i diritti dei lavoratori e degli uomini al sostentamento e alla felicità.
Il film di Margot Benacerraf riesce con successo a coniugare diversi intenti, il documentario antropologico, la narrazione e la riflessione politica, donandoci un esempio raro di poesia misto a economia, ad efficacia del racconto. L’unica cosa che ci può risultare invadente è la ripetizione di alcune locuzioni nel racconto, ma le possiamo comprendere accettando la lettura ritmica del film, che quindi riporta come in un ritornello le stesse rituali parole, che rimarcano gli stessi rituali gesti.
L’intento di narrazione più classico è leggibile proprio nelle espressioni poetiche con cui la voce narrante si rivolge ai suoi protagonisti e alle loro azioni, e nelle inquadrature ricercate, soprattutto quelle che collocano l’uomo all’interno del paesaggio, che non sono solo rappresentazione del suo lavoro, ma ne fanno percepire l’importanza, il ruolo fondamentale nelle loro vite. Uomini, donne e bambini sono circondati dal biancore del sale, dallo sciabordio delle onde, da orde di pesci e di uccelli, come anche dalle conchiglie raccolte dalla piccola Carmen, che inizialmente paiono un gioco infantile per poi rivelarsi un tributo ai morti del villaggio, che in assenza di fiori vedono adornare le loro tombe con eterni coralli.
Importante la tempestività della regista nel documentare il passaggio tra le pratiche arcaiche e quelle meccanizzate, tema che ancora oggi torna, perché la carica del progresso non si è mai arrestata. E a distanza di anni possiamo vedere come numerose popolazioni che hanno subito il trauma di questo rapido passaggio sono rimaste prive di risorse. Osservando questo film dobbiamo chiederci forse cosa significa il termine povertà e imparare a distinguerlo intorno a noi. E di conseguenza dovremmo oggi, nel 2021, tornare a chiederci cosa sia la felicità, e come può l’uomo raggiungerla?