Solo dieci giorni di lavorazione per una parte non certo da protagonista e con il proprio nome che deve dividere l’attenzione di pubblico e critica con altre star come Anthony Perkins, Jeanne Moreau e Elsa Martinelli. Eppure Romy Schneider accetta immediatamente l’offerta di Orson Welles di partecipare a Il processo (1962), tratto dal romanzo omonimo incompiuto di Kafka. Dopo i due progetti con Visconti, a teatro nel 1961 con Peccato che sia una sgualdrina al fianco dell’amato Delon e l’anno seguente con l’episodio Il lavoro del film corale Boccaccio ’70, la nuova immagine dell’attrice che vuole far dimenticare il suo passato da imperatrice è ancora incerta. Le lodi ricevute per le interpretazioni con Visconti non si traducono in offerte di ruoli da parte di altri registi importanti fino, appunto, alla chiamata di Welles.
Interpretando Leni, l’assistente ninfomane dell’avvocato Hastler (Welles) che difende il protagonista Josef K (Perkins), un burocrate inspiegabilmente accusato di un crimine mai specificato, Schneider sancisce la sua definitiva insofferenza rispetto ai ruoli iniziali nei popolari film di Ernst Marischka. Per l’attrice, il ruolo di Leni significa continuare a riflettere sul rapporto con la seduzione e la perdita di vergineo candore del debutto. Tuttavia, se Visconti esalta il potere della seduzione attraverso l’eleganza degli abiti e degli ambienti e la luminosità del trucco e dei colori, Welles quasi mortifica l’aspetto esteriore della Schneider, ritraendola con un espressionistico bianco e nero, eliminando ogni traccia di trucco e di eleganza e mettendola davanti alla macchina da presa sola con le sue doti attoriali per riuscire a convincere di essere un’artista credibile. Fin dalla prima inquadratura frontale del taglio degli occhi che guardano dallo spioncino della porta, Leni viene connotata come un mistero verso cui siamo attratti e che seguiamo attraverso un mondo surreale e deformato.
La società de Le Procès è una distopia che ricorda la metafora weberiana della “gabbia d’acciaio” in cui la razionalizzazione ha messo sotto scacco le differenze e le individualità. Significative a questo proposito sono le sequenze girate sul posto di lavoro di K, con tutte le postazioni di lavoro disposte in infinite file sempre uguali, e la sensazione che la macchina da presa sia un panopticon che segue le vite degli altri. Non c’è nulla di rassicurante in uno stato che spia i propri cittadini e formula accuse senza specificarne il contenuto: questa idea di stato si contrappone all’evocazione, quasi nostalgica, nei primi film che fecero di Schneider la star di un impero paternalista e benevolo nei confronti dei cittadini che sanno stare al proprio posto.
Infine, Welles pone Schneider in una costruzione cinematografica che viola il patto di verosimiglianza con il pubblico. Il mondo claustrofobico in cui si muovono i personaggi wellesiani, costituito quasi interamente da interni, sembra fatto da un susseguirsi di infiniti set cinematografici in cui gli ambienti dove si muovono in personaggi finiscono bruscamente e si succedono senza soluzione di continuità, come all’interno di un unico, vasto teatro di posa. In modo riflessivo viene quindi richiamata l’attenzione dello spettatore sulla finzione cinematografica: stessa funzione assolta dal prologo ed epilogo, quasi da lanterna magica, una proiezione nella proiezione che termina con l’inquadratura dell’obiettivo e la voce di Welles che si identifica come il creatore del film, apponendo così la sua firma di auteur sull’opera.
Con Le Procès, Romy Schneider cerca un nuovo pubblico e l’affermazione in un cinema radicalmente diverso da quello degli esordi: volutamente intellettuale e autoriale che mette in evidenza la luminosità e la vivacità del suo sguardo senza trucco e senza ghirlande, una delle poche speranze nel buio e illogico mondo di Kafka.