Emigrantes appartiene a quel filone cinematografico italiano dell’immediato secondo dopoguerra composto da film comici che si inseriscono nella scia del Neorealismo, film nati dal desiderio di alcuni attori (Totò e Aldo Fabrizi in primis) di innestare la loro comicità in pellicole dotate di uno spirito più drammatico. È anche questo elemento di genesi – oltre al tema cardine dell’emigrazione italiana, assai pressante per il periodo – che rende Emigrantes un’opera figlia del suo tempo e che dovrebbe quindi attenuare la sorpresa di chi, conoscitore di Fabrizi quale attore comico e rappresentante dell’anima più popolare della città di Roma, si trova ad assistere ad un esordio registico che alla vis comica dell’attore mescola una buona dose di melodramma. Per la prima delle sue nove regie, Aldo Fabrizi sceglie infatti di dedicarsi a un argomento importante ma assai poco trattato: l’emigrazione degli Italiani verso l’America latina.
Il film racconta di una famiglia che, dopo la morte in guerra del figlio maggiore, versa in gravi difficoltà economiche e decide di emigrare in Argentina, raccontandosi – soprattutto per calmare le remore della moglie – che si tornerà a Roma quando si saranno messi da parte abbastanza soldi. Il processo di adattamento alla nuova vita è in realtà più difficile del previsto e ciò genera tensione all’interno del nucleo familiare. Lo spirito neorealista di cui il film è pervaso si riflette principalmente in due elementi. Innanzitutto nella costruzione tridimensionale – a scardinamento del pregiudizio spettatoriale – del personaggio di Fabrizi, la cui implicita bontà viene messa a dura prova dalle situazioni che spingono l’uomo verso azioni meschine, fino al tentativo di truffare l’assicurazione attraverso la stessa modalità che Elio Petri, naturalmente con altro intento, adotterà nei Giorni contati. Di eredità neorealistica sono poi le comparse sul piroscafo (veri emigranti italiani) e il medico di bordo che interpreta se stesso.
Fabrizi si dimostra un ottimo regista innanzitutto a livello figurativo: la composizione delle inquadrature è di notevole fattura, assai efficace nell’esplorazione degli spazi (si pensi al viaggio in nave oppure alla sequenza dell’abbandono della casa, dove la posizione bassa della macchina da presa si fa partecipazione emotiva alla tristezza dei protagonisti) e nella creazione di un pathos simbolico (la sequenza del battesimo sul ponte della nave, culminante nell’immagine dell’albero isolato dal contesto a ricordare una croce). Fabrizi si conferma poi eccellente nella gestione dei tempi cinematografici non solo davanti ma anche dietro la macchina da presa. Certamente la bonomia del “personaggio” Fabrizi, a prescindere dallo specifico ruolo del padre di famiglia che qui riveste, mitiga la drammaticità di una storia che si sarebbe potuta prestare a derive eccessivamente patetiche (termine e registro che Fabrizi avrebbe aborrito).
Così, se il tono generale del film risulta assai equilibrato, grazie specialmente alle strepitose prove attoriali del cast (in particolare dello stesso Fabrizi e di una meravigliosa Ave Ninchi), è l’evidente intento propagandistico che si legge in controluce a rischiare di suscitare qualche perplessità negli spettatori di oggi, sebbene a uno sguardo più attento anche questo venga riassorbito in una narrazione che risolve i conflitti in una fraterna cooperazione riunente i due popoli in un metaforico abbraccio. C’è anche da dire che in quegli anni il governo argentino promuoveva l’immigrazione dei lavoratori italiani (la presenza di Eva Duarte Peròn alla presentazione del film a Buenos Aires, come mostrato nel cinegiornale che è stato proiettato prima del film, ne è chiaro segno) e non avrebbe quindi acconsentito a co-produrre un’opera il cui animo non fosse, seppur realistico, profondamente ottimista.
Ciò non toglie che Fabrizi dovette penare molto per portare a termine questa sua avventura registica, ingegnandosi a trovare un contratto per la sua compagnia nel teatro Astral di Buenos Aires in modo che si recitasse la sera per guadagnare i fondi necessari ad effettuare le riprese il giorno successivo. Lo sconforto, la rabbia e l’amarezza della situazione, culminati in un’opera che fu poi stroncata dalla critica, risultano evidenti in una lettera che Fabrizi scrisse a Vittorio De Sica in quel periodo e che la nipote del grande attore/autore romano ha voluto condividere con il pubblico del Cinema Ritrovato: “M’avevano promesso studios meravigliosi, macchine Mitchell a dozzine, mezzi tecnici superiori a quelli di Hollywood, tutta la cinematografia argentina a mia disposizione. E poi sai com’è andata a finì? Che se nun m’ero portato da Roma una macchina da presa a scartamento ridotto e una valigetta legata con lo spago, er film col cavolo che lo finivamo! […] Ho tirato avanti alla meglio, in mezzo a mille difficoltà, senza aiuto regista, senza segretaria di edizione, senza quattrini. Ho mandato giù tanta de quella rabbia che me so’ ingrassato de qualche chilo!”.