Due anni dopo quella guerra lampo dei Fratelli Marx che rivoluzionò il linguaggio comico al cinema (è qui che troviamo le basi di Woody Allen) e tre anni prima di quell’orribile verità che gli farà vincere l’Oscar, nel 1935 Leo McCarey dirige il terzo adattamento cinematografico (il primo fu ad opera di Lawrence C. Windom nel 1918, il secondo di James Cruze nel 1923) di Ruggles of Red Gap. Il titolo prende il nome dal suo protagonista, il maggiordomo Marmaduke Ruggles, che dalla morigerata Inghilterra va a vivere nell’esuberante cittadina di Red Gap, a Washington. Letteralmente sarebbe quindi Ruggles di Red Gap ma noi optammo per un più facile da ricordare Il maggiordomo.
Intorno all’abbandono da parte del personaggio di quelle che sono le tradizioni e le convenzioni del vecchio mondo per abbracciare gli ideali di libertà e uguaglianza nel nuovo, McCarey fa ruotare l’intero meccanismo comico del film. Va detto che nella seconda parte si lascia prendere un po’ troppo la mano, scivolando in una retorica insistente con quel discorso di Abraham Lincoln a Gettysburg recitato a memoria dal protagonista che lascia tutti senza fiato. Ma la prima parte? Irresistibile commedia old school.
La struttura è ancora quella di un cinema che stava pian piano scoprendo le proprie potenzialità e prendendo le distanze dalla rappresentazione teatrale per crearsi un proprio percorso. Sarebbe dunque inappropriato aspettarsi particolari fantasie di movimento di macchina, campi e controcampi hanno ancora da venire. Tuttavia è interessante il ritmo che si viene a creare attraverso scambi di battute che ancora non hanno perso freschezza, e la bravura di un cast capace di tenere la scena anche quando non ha nulla da dire. Come durante uno spettacolo dal vivo.
È un film che si schiera senza remore dalla parte di quell’America certamente cafona e chiassosa, ma proprio in quegli eccessi di rottura con il rigoroso contegno inglese si nasconde, secondo McCarey, il cuore pulsante di un Paese che guarda sempre verso il futuro ridendo dei limiti del passato. Nella guerra tra il tè delle cinque col mignolo alzato e il grido yankee di due vecchi amici che si incontrano, per Ruggles of Red Gap è il secondo a vincere. In quelle risate irresponsabili c’è tutto lo spirito dei coloni che con quel Boston Tea Party nei confronti del governo inglese nel 1773 fecero scoppiare la Guerra d’indipendenza americana.
Certo, è facile per noi evidenziare l’ipocrisia che serpeggia in tale esaltazione, nell’essere tanto bravi a parlare di libertà e uguaglianza scordando che le fondamenta del palazzo sono piene di persecuzioni, xenofobia e schiavitù. Ma logicamente Ruggles of Red Gap va contestualizzato. Probabilmente anche se McCarey avesse voluto evidenziare tali contraddizioni al tempo non glielo avrebbero lasciato fare. Ecco perché la sua sincerità non risiede tanto in quel finale da sogno americano per certi versi un po’ fastidioso. Ma nei primi irresistibili scrutamenti da parte degli occhi roteanti e spaesati, sempre ad un passo dallo strabismo, di un formidabile Charles Laughton alla sua prima prova comica, verso le stramberie di un travolgente Charlie Ruggles.
La scena più bella è infatti quando i due sono al bar per la prima volta, con il primo che rammenta al secondo che la differenza di rango sociale non permette ad un maggiordomo di bere qualcosa col suo padrone, e l’altro che insiste affinché egli si sieda. Nella domanda “Perché non ti siedi con me? Non sono forse un tuo pari?” che il ricco americano rivolge allo sconvolto maggiordomo inglese, c’è tutta l’America nella quale, nonostante i difetti, McCarey fortemente credeva.