Il campo di concentramento di Auschwitz non era più in uso da appena tre anni quando la regista Wanda Jakubowska decise di tornare nel luogo in cui era stata imprigionata per girare L’ultima tappa, che sarebbe poi diventato il suo film più celebre nonché uno dei primi sul tema dell’olocausto. Oltre alla regista anche diversi degli interpreti e la sceneggiatrice Gerda Schneider vi erano stati rinchiusi, e per ricercare ulteriori elementi di veridicità furono usate come costumi delle vere divise dei prigionieri. La vicenda corale è ambientata in vari punti della sezione femminile del campo, prevalentemente fra i detenuti polacchi.
Nonostante tutte le accortezze storiche, Juakubowska decide di non trattare direttamente gli aspetti peggiori della vita quotidiana nel campo, il che è strano vista l’estrema crudità di moltissime sequenze. Altra grande assente è la rappresentazione delle esecuzioni più peculiari dei campi di concentramento nazisti, ovvero quella nelle camere a gas, di cui comunque serpeggia costantemente il presagio e la minaccia nella forma delle massicce colonne di fumo che fuoriescono dai camini dei forni crematori. Le azioni dei personaggi sono orientate in due direzioni: la sopravvivenza quotidiana e la ricerca di una via di fuga. Alla regista, infatti, interessa soprattutto mostrare la tenacia delle donne internate, che cercano di organizzarsi internamente al campo ma anche di tenere d’occhio lo stato della guerra sul fronte orientale, poiché la loro più concreta possibilità di salvezza è l’avanzamento dell’esercito sovietico.
La speranza è labile, legata com’è a dinamiche su cui le prigioniere non hanno alcun controllo, mentre la sofferenza è terribilmente concreta e la morte un’opzione ben più che probabile. Non tutte le detenute vivono nelle stesse condizioni: alcune sono leggermente avvantaggiate rispetto ad altre perché le loro specializzazioni sono giudicate utili ai carcerieri, come le infermiere e le interpreti, mentre le più privilegiate sono quelle che hanno deciso di passare dalla parte degli aguzzini nazisti. Per tutte le altre la vita consiste in lavori forzati, fame, malattie, e la minaccia dei forni. Vistosa e lacerante è poi l’asimmetria fra le cene dei nazisti, in cui discutono asetticamente di statistiche mortuarie, e le ampie inquadrature all’interno del campo in cui centinaia di persone sono strattonate e rantolano nel fango, qualcuna viene giustiziata in loco, sotto l’ombra pesante delle coltri di fumo.
L’ultima tappa è una preziosa testimonianza prima ancora che un’opera disarmante, che ha contribuito a portare alla luce dinamiche altrimenti inimmaginabili di un periodo terribilmente buio. Il prossimo passo è smettere di discutere e ragionare sui campi di concentramento al passato.