C’è un ragazzo, nella Napoli degli anni Ottanta, pieno di idoli, di passioni, di persone attorno a lui. Si chiama Fabio Schisa, per tutti Fabietto, ed è l’alter ego di un giovane Paolo Sorrentino diciassettenne. La sua storia di formazione, dai forti toni autobiografici, raccontata in È stata la mano di Dio si divide in due parti, due film, due metà, spezzate da un tragico evento centrale: la morte dei due genitori. Prima un adolescente circondato da ispirazioni, che desidera l’arrivo di Maradona al Napoli e assiste a una serie di provini fatti da Fellini, una commedia, un divertito ritratto di famiglia, un film collettivo dai tempi comici in parte praticamente inediti per Sorrentino. Poi un giovane in lutto che cerca di scappare dalla realtà, un adulto a cui gli idoli non fanno più presa, il film diventa dramma e il tutto diventa sempre meno collettivo e sempre più solitario, introspettivo, rarefatto.

Dopo aver raccontato le moltitudini di Roma, nelle sue infinite figure del potere, da quello politico (Il divo e Loro) a quello artistico-intellettuale (La grande bellezza) passando attraverso quello religioso (The Young Pope e The New Pope), Paolo Sorrentino torna a Napoli dai tempi del suo esordio L’uomo in più. Raccontando la città da insider, non la scova o la perlustra come Roma, ma la ammira con il senso malinconico di chi quei luoghi li conosce fin troppo bene da non doverli neanche ripercorrere ossessivamente.

Con È stata la mano di Dio, Sorrentino riesce a sventare i pericoli che all’annuncio del film potevano sembrare porsi di fronte al progetto (ovvero che il suo cinema si mangiasse l’autobiografia in un eccesso di autoreferenzialità o viceversa in una perdita di autorialità). Restituendo così un affresco compiuto che riesce a trovare un preciso punto di incontro tra il suo cinema e la sua storia personale. Intimo, ma mai patetico, mai facilmente drammatico. Non solo per scelta quanto anche unicamente per pudore, fragilità. E questo è il delicato tocco umano di Sorrentino che a ogni picco emotivo smorza, devia e cambia direzione con un incredibile rispetto nei confronti di sé, della sua storia, quanto del suo pubblico.

Nel film tutto gira intorno a ciò che si vede e ciò che non si vede. Alla realtà. Il lutto spesso ha a che fare con l’accettazione della realtà, ma quale? Il protagonista vuole vedere ciò che non può (o che non può più perché non gli hanno permesso di farlo al momento giusto), mentre allo stesso tempo non vede ciò che potrebbe. La sequenza nella camera da letto della baronessa è sintomatica. Anche se il più grande controcampo, quasi sempre lontano dagli occhi del protagonista, è il cinema: da Fellini (udito solo per voce) al VHS di C’era una volta in America che è sempre sul punto di essere visto, ma non lo guarda mai.

L’unico “cinema” che in qualche modo il protagonista ascolta è il regista napoletano Antonio Capuano, a cui Sorrentino fa un grande omaggio, che ripete al ragazzo la frase “non ti disunire”, prima di salutarlo dividendosi tra una nuotata di chi ha tutta l’intenzione di non spostarsi mai da Napoli e la camminata di chi ha già deciso di partire. Suggerendogli tra le righe di non sgretolarsi, non cadere dentro di sé, ma allo stesso tempo non dimenticarsi di se stesso. E questo è proprio ciò che Sorrentino ha fatto con È stata la mano di Dio, non si è disunito, anzi, non è mai stato così poco disunito in tutta la sua filmografia.