Solamente un anno fa, i fratelli D’Innocenzo, ci avevano lasciati a indugiare sulla tragedia che chiudeva il loro secondo film Favolacce (Orso d’argento per la sceneggiatura al Festival di Berlino), sui bambini che “reagivano” ai genitori, sul futuro incerto, sull’adulto inadempiente, interessato solo ai ruoli di potere nei microcosmi di provincia, l’uomo estraneo, inconsapevole, immaturo e, in un certo senso, anche antieroico.
Oggi i due registi – dopo tre anni dal loro esordio e dopo un successo lampo nel mondo cinefilo, tanto rischioso quanto promettente, che li ha portati dalla sezione Panorama di Berlino al concorso di Venezia – tornano, quasi come se non se ne fossero mai andati, con America Latina, loro terzo lungometraggio. Tornano alla provincia decadente nei pressi di Roma, da Spinaceto a Latina, tornano a guardare al rapporto adulto-bambino, ma attraverso nuovi punti di vista, tornano al loro tanto criticato cinema sussurrato e “masticato”, a Elio Germano e ai toni da fiaba dark (anche se qui molto più sacrificati a favore di un racconto più drammatico-realistico).
La storia è quella di un dentista (Germano), un uomo medio dal lavoro pagante e appagante, dagli amici con i quali bere, una villa lontana dal centro, grande e silenziosa, una moglie a cui essere fedele e due figlie da amare. Ma in questa piccola parabola di un uomo corretto qualcosa puzza di decadenza: prima le strade di Latina, poi la cantina dove il protagonista scopre l’inspiegabile. Da qui i dubbi, le domande trattenute e il crollo della fiducia nei confronti dell’altro quanto di sé.
Non più un quartiere, ma una villa; non più un film collettivo, ma individuale. America Latina mette in scena un mistero interiore, è un “thriller dell’io”, un film ruvido che scava nelle identità sociali, di genere e generazionali, tra vuoti di memoria, una provincia dove tutti sembrano avere occhi pericolosamente complici e un senso di colpevolezza che si fonde alla paranoia complottista.
Con questo film i D’Innocenzo sembrano dimostrare di essere ancora interessati alle sfumature che scattano nel mettere in scena il rapporto adulto-bambino in epoca contemporanea; dove quest’ultimo oggi è spesso feticizzato, ossessivamente salvaguardato e protetto, i due registi instaurano cortocircuiti e provocazioni mettendone in crisi le narrazioni attuali. Se in Favolacce i bambini sono praticamente il controcampo dimenticato e abbandonato dal gruppo di genitori, ma allo stesso tempo protagonisti e artefici di tutto il film, in America Latina sono un pretesto, uno strumento attraverso il quale raccontare la messa in crisi dell’adulto contemporaneo. Una rottura che provoca un crollo.
Il protagonista è, infatti (e ancora), un maschio in crisi, che piange di notte di fronte a una moglie addormentata e totalmente impassibile, un uomo messo in scacco da personaggi femminili. Ma è anche adulto solitario, alla (non)ricerca di una verità che sviscera con l’occultamento delle proprie responsabilità. A questo festival di Venezia, sempre in concorso, un altro film propone suggestioni che, nell’ottica dell’evoluzione simbolica del personaggio, sembrano riflettere sullo stesso tema: Sundown di Michel Franco. Entrambi propongono uomini improvvisamente travolti da una spinta quasi schizofrenica, paranoica, adulti che paiono comportarsi come adolescenti, compiendo gesti ingiustificati, non del tutto comprensibili. America Latina però resiste dove Michel Franco – cambiando direzione, dando qualcosa alla narrazione e aggiungendo una netta e indiscutibile chiave di lettura – non regge.
I D’Innocenzo non danno mai chiara definizione di tutto, non insistono con la giustificazione narrativa, restando nel territorio dell’aperto, dell’indefinito, del concettuale. Depistando lo spettatore, tradendolo. Ponendo domande senza dare mai, ovviamente, nessuna risposta.