Probabilmente non è un caso che la programmazione di Venezia 78 abbia visto abbinati nella penultima giornata The Last Duel e Les choses humaines. Dietro le evidenti differenze stilistiche e di genere il dramma storico di Ridley Scott e quello giudiziario di Yvan Attal sembrano per certi versi lo stesso film: una specie di versione moderna di Rashomon in cui un processo per stupro si fa perno di una narrazione scissa in tante parti quanti sono i personaggi coinvolti, fornendo versioni contraddittorie di una realtà dai confini incerti e nebulosi.
Nel film di Scott, tratto da fatti "realmente accaduti" durante il tardo '300 francese, la violenza - se violenza c'è stata - è quella ai danni della moglie (Jodie Comer) del vassallo del re Jean de Carrouges (Matt Damon) da parte dello scudiero Jacques Le Gris (Adam Driver) suo ex alleato e rivale per i favori della corte. Nel corso di due ore e mezza sontuose, ma con l'eccezione delle sequenze guerresche d'apertura e chiusura sorprendentemente anti-spettacolari, il film esplora le prospettive dei tre personaggi sulla vicenda che porterà Carrouges e Le Gris a sfidarsi a duello per difendere il proprio onore.
Più ancora che per l'intreccio The Last Duel riveste interesse come punto d'intersezione fra diversi percorsi autoriali, che qui solidificano legami o ne creano di inediti: è il grande ritorno alla sceneggiatura della coppia Matt Damon-Ben Affleck, Oscar nel 1998 per lo script di Will Hunting - Genio ribelle, anche nuovamente coprotagonisti in due prove di segno opposto - greve e monocorde Damon, deliziosamente ironico Affleck - che lasciano il segno malgrado il makeup perfettibile e l'inopportuno accento yankee, lascito incancellabile di quell'epoca di melting pot linguistici dell'epica internazionale anni '50 e '60 in cui lo stesso Scott affonda orgogliosamente le sue radici di novello David Lean. Il film continua poi la proficua collaborazione fra il regista inglese e Damon dopo l'acclamato Sopravvissuto - The Martian (2015), salutato da alcuni come un atteso ritorno alla forma dei tempi migliori, e introduce Driver nel parco attori scottiano prima dell'imminente House of Gucci.
Più importante ancora, si tratta dell'ultima tappa dell'affascinante percorso di Scott nei territori dell'epica bellica in costume, genere a rischio d'estinzione di cui in Occidente, con la possibile eccezione di Peter Jackson, rappresenta il principale esponente contemporaneo per capacità di folgorazione visiva e maestria di racconto. Rapportato - andando a ritroso – a Exodus, Robin Hood, Le crociate, Il gladiatore o perfino Legend, si tratta come dicevamo di un film relativamente posato, per via di una sceneggiatura meno interessata alle battaglie che alla descrizione di ossessioni in cui l'odio personale si sovrappone ai codici d'onore cavallereschi di un'epoca ricostruita con minuzia, in stretta vicinanza al quasi omonimo esordio I duellanti (1977).
Se nel film di Attal la narrazione a incastro si fa punto d'accesso di una visione umanista e relativista, al riparo da estremismi ideologici sul tema della violenza di genere, The Last Duel la utilizza all'opposto per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c'è, o se c'è è un dio infantile, "più umano dell'umano" e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus.
Sempre come in Kubrick la violenza risulta nettamente sessuata in senso maschile, portato di una fallicità vacua e meccanica che tanto un Damon morto vivente quanto un Driver costantemente in fregola rendono alla perfezione, e che ha come destinatario d'elezione il Femminile - unica luce a squarciare le tenebre del cupo universo scottiano da quando la sola Sigourney Weaver/Ripley sfuggì seminuda, tanto inerme quanto indistruttibile, alla bestiale funzionalità assassina dello xenomorfo.
Non ci si aspetti relativismo da sir Ridley: quello di The Last Duel è il femminismo arcaico e lapidario di un veterano ultra-ottantente che ha perso anche la poca voglia residua di andare per il sottile e non ha nessun interesse a limare le sfumature storiche, convinto come il maestro di Brooklyn prima di lui che la violenza umana sia il moto circolare di un osso/astronave che non smette di girare ostinatamente da milioni di anni. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?