“Qui rido io” è la frase che campeggia sull’ingresso principale della dimora in stile Liberty di Eduardo Scarpetta, che ancora oggi si staglia come un piccolo castello sulla collina del Vomero. Sono lettere in rilievo di ferro, una volta dorato, che marchiano Villa Santarella, chiamata così in onore di una delle commedie scarpettiane di maggiore successo, con un affaccio meraviglioso che domina — letteralmente — il golfo di Napoli. “E aveva ragione. Lì rideva lui. Infatti, lì, spogliato dai suoi buffi abiti di Sciosciammocca, rideva allegramente dei fatti seri della sua vita privata, come il suo vastissimo pubblico, senza troppo riflettere, rideva a quelli comici di una qualsiasi sua commedia di carattere, solitamente, franco-napoletano. In quella villa, negli svaghi di riposi estivi rideva lui perché, in verità, la leggerezza con la quale affrontava certi aspetti morali della vita civile era talmente cinicamente sfacciata che lo poteva solo far ridere e di ‘compiacimento’ verso se stesso, tanto, si sentiva autorizzato a farlo.”

Sono le parole impresse con una nutrita dose di amarezza da Peppino De Filippo nell’ormai introvabile autobiografia nominata, manco a dirlo, Una famiglia difficile. Ed è in questa ambiguità tragicomica che si colloca uno dei lavori più riusciti di Martone, perché la storia di Scarpetta finisce per scandire i cambiamenti politici, artistici e morali della Belle Époque, in cui i ruoli sociali erano destinati irrimediabilmente a mutare nel turbinio di sogni e feroci aspirazioni dell’alta borghesia.

È un Toni Servillo particolarmente a suo agio nell’indossare i panni del genio comico, del guitto ambizioso, del padre-padrone che, per ineluttabile contraddizione, non incarna i tratti convenzionali del pater familias, e dello “zio” severo e indulgente che accarezza e punisce. Ma nell’ammirare ancora una volta la sua incredibile e trasversale capacità di adattarsi a tutti i ruoli cinematografici possibili con la statura fisica e drammaturgica della grande tradizione del Novecento, non si faccia l’errore di ignorare la pletora di attori che in Qui rido io si alterna come sulle tavole polverose del glorioso San Ferdinando.

In un bilanciassimo e rigoroso — anche troppo — incontro tra antico e moderno, Martone dirige sapientemente la prorompente e beffarda carica comico-drammatica di Maria Nazionale, Giovanni Mauriello (che fu cuore pulsante della Nuova Compagnia di Canto Popolare), Iaia Forte, Gigio Morra, Cristiana Dell’Anna e Lino Musella. E ancora, il giovane Eduardo Scarpetta che interpreta suo nonno Vincenzo (la sua prova attoriale finora più riuscita), Tommaso Bianco (che proprio nella compagnia di Eduardo De Filippo passò in rivista icone tipicamente scarpettiane), Roberto De Francesco e Gianluigi Imparato. Tanto che ci si potrebbe azzardare a definire il film di Martone un misurato tributo al teatro napoletano di ieri e oggi, una ricostruzione storico-critica che sa quasi di espiazione filologica dopo l’azzardo compiuto con la sua versione — in odor di universo Gomorra — de Il sindaco di Rione Sanità.

L’epopea di quella “famiglia difficile” che fu la grande famiglia Scarpetta, legittima e illegittima, si fonde in un incastro narrativo a orologeria con le riflessioni sulla legittimità dell’arte popolare. I complessi rapporti di potere tra il capocomico, i suoi molteplici figli, le sue amanti, i suoi attori riflettono successi e insuccessi della sua macchina teatrale — al servizio del popolo, ma con uno spirito tracotante e arrivista inviso all’élite. Ed è proprio nel parodiare La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio che il suo lavoro attira le ire del Vate e di una schiera di “rivali” suoi contemporanei come Salvatore Di Giacomo e Roberto Bracco, che accusano Scarpetta di plagio e contraffazione.

Qui rido io — nel suo ritmo canonico, lento e preciso — finisce per tratteggiare senza sbavature una serie di domande mai scontate sulla paternità, sia essa biologica o autoriale, il cui accordo risiede in un compromesso doloroso. Lo suggerisce Benedetto Croce, nel delineare limiti e punti di forza della maschera di Felice Sciosciammocca, e lo sussurra il piccolo Eduardo (De Filippo) all’insofferente fratello Peppino: la risoluzione dello scontro respira unicamente sulle tavole del palcoscenico, spazio di austero gelo teatrale, che è poi espressione di agognatissima libertà.

E tra le luci calde di sale da pranzo e di angusti camerini, batte il cuore di una Napoli famelica e irrequieta che ride, ancora una volta, per non piangere.