Vittorio De Seta è stato definito da Martin Scorsese “un antropologo che si esprimeva con la voce di un poeta”. La Cineteca di Bologna, da sempre appassionata promotrice dell’opera di questo maestro, ha restaurato tutti i suoi cortometraggi; tra i più recenti, nel 2019, Lu tempu di li pisci spata (1954) in collaborazione con la Film Foundation – un’organizzazione no-profit voluta dallo stesso Scorsese, con la missione di salvare i capolavori della cinematografia mondiale.
Vittorio De Seta si spegne nel 2011. Sua figlia Francesca ha fatto proprio il desiderio del padre di lasciare alla Cineteca di Bologna il suo archivio cartaceo che ora è disponibile alla consultazione presso la biblioteca Renzo Renzi.
L’approfondimento che qui pubblichiamo sulla storia produttiva del primo lungometraggio di De Seta, Banditi a Orgosolo (1961), è il primo tentativo di fornire, grazie ai suoi diari, nuove prospettive di lettura dei suoi film, rispettando, ci auguriamo, la sua privacy.
A prima vista sembra un one-man-show. È lo stesso De Seta a scriverlo nei suoi diari che sono conservati negli archivi della Biblioteca della Cineteca di Bologna: “Ho fatto Banditi a Orgosolo [1961] praticamente da solo, con due assistenti e mia moglie. La produzione industriale, la grande troupe mi soffoca, mi inibisce” (22 febbraio 1962).
Il 9 dicembre del 1990 è anche più preciso: “A fare Banditi eravamo in quattro, io, mia moglie, Luciano Tovoli e un ragioniere di Roma che avrebbe dovuto fare i conti”.
Un motivo di questo è rintracciabile in una nota del 2 marzo 1954: “Mi sento contrario al problema collaboratori perché mi sembra che una troupe per quanto piccola ostacoli i rapporti con la gente… Bisogna entrare a far parte del gruppo della gente che si vuole filmare, non restarne estranei...”.
E questa è una prima mezza verità.
Tra le altre cose, lo stesso giorno - siamo a marzo del 1954 e De Seta non ha ancora girato un metro di pellicola - aveva scritto: “Idea di penetrare nello spirito di una regione (Calabria, Sicilia, Sardegna), in generale nel Mezzogiorno, dei suoi contadini, pastori, pescatori. Questo attraverso una lunga permanenza. Poi tirare fuori la macchina da presa e girare… Che cosa? Prima dei cortometraggi, dei documentari, poi dei film a soggetto”. E questa, per un uomo sistematicamente roso dai dubbi e dalle incertezze come De Seta, appare come una sorprendente e cristallina dichiarazione di strategia e di poetica al tempo stesso.
Il 13 febbraio 1962, De Seta è a Parigi e scrive: “[…] la smania di fare tutto da solo non è altro che un complesso, la conseguenza di uno stato di inibizione”.
E questa è probabilmente una seconda mezza verità. Ma qui bisogna tenere conto del fatto che da tre anni era in analisi con lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard (a cui De Seta dedicherà Un uomo a metà) e quindi era già piuttosto avanti nel suo processo di introspezione sul suo senso di inadeguatezza, sulla sua incapacità di farsi degli amici, sul suo complesso di inferiorità, ecc.
La terza mezza verità è che De Seta non aveva i soldi. E neppure una sceneggiatura, ma aveva un’idea.
De Seta era già stato a Orgosolo e in Sardegna per girare due documentari: Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia, entrambi del 1958. Ci torna nell’ottobre del 1959 e poi nella seconda metà di dicembre dello stesso anno. A gennaio del 1960 parte assieme a Luciano Tovoli, Elio Balletti e l’operatore Zanni per fare dei provini.
In seguito mette assieme una troupe vera e propria con “Tovoli, Manganiello, Marilù, Balletti, Bergamini. Poi decisi che ci voleva l’operatore e feci venire Marcello Gatti. […] Nella seconda metà di marzo girammo i primi 1000 metri con Gatti. Andò malissimo. Non avevo sceneggiatura e pensavo di andare avanti un po’ alla volta. La visione del materiale fu una delusione” (14 febbraio 1961).
A quel punto fa quattro conti e scopre di essere fuori già di 7-8 milioni (il film se l’era autofinanziato vendendo alcuni appartamenti di via Satrico). “In pochi giorni mandai via Gatti, Bergamini, Elio Balletti. Marilù era già andata via. Rimanemmo Tovoli, Fenoglio, Manganiello, Vera” (ibid.).
Poi anche Fenoglio dà forfait a causa di una lombaggine. È così che rimangono in quattro.
Dunque Alfredo Manganiello (già assistente alla fotografia e segretario di produzione nei documentari precedenti) è probabilmente il ragioniere che dovrebbe star dietro ai conti, anche se il suo nome alla fine non compare nei titoli del film. Bergamini è Giovanni Bergamini, assistente di Gatti. Balletti è lo scenografo. Marilù è Marilù Carteny, la costumista, moglie di Giulio Questi - si erano conosciuti sul set di Le ragazze di San Frediano (V. Zurlini, 1955) – e che sarà anche la costumista di Salvatore Giuliano (F. Rosi, 1962) e di Queimada (G. Pontecorvo, 1969). Vera è Vera Gherarducci, la moglie di De Seta. E Tovoli è Luciano Tovoli; il futuro direttore della fotografia di Professione Reporter (M. Antonioni, 1975) e Suspiria (D. Argento, 1977). Al momento è un ragazzotto di 23 anni uscito da poco dal Centro Sperimentale.
Ma il rapporto tra i due è destinato a durare. Tovoli sarà operatore alla macchina in Un uomo a metà (1966) e poi direttore della fotografia di L’invitata (1969) e di Diario di un maestro (1973). Negli anni successivi a Banditi, ogni volta che De Seta pensa a un progetto e fa un preventivo la voce “Luciano” non manca mai. Arriva pure a sognarselo. Il 5 dicembre 1960 scrive: “Sogno: Sono con Luciano Tovoli e con un altro su un grande veliero. C’è da portare in alto, sugli alberi, una cassa in forma di bara”. Ancora nel maggio del 1976 si lamenta: “Luciano Tovoli, anche, non lo vedo mai”.
Difficile dire a chi dobbiamo rendere onore. De Seta aveva una qualche esperienza visto che aveva già curato la fotografia dei suoi cortometraggi. Tovoli non ne aveva, ma è pur sempre Tovoli. Sta di fatto che il risultato è smagliante. Sia nei rari interni (con un parco luci evidentemente irrisorio), sia negli esterni che non tendono mai al pittoresco, non cercano mai di piacere. E in ogni caso riprendere un gregge di pecore bianche sullo sfondo di una montagna biancastra e brulla non è un’impresa da poco.
De Seta torna a Roma a ottobre e fino a gennaio del 1961 lavora al montaggio del film. Quindi comincia a farlo vedere in giro e le reazioni sono più che positive.
Piace a Fellini e a Fracassi. Piace a Marcello Bollero - ispettore di produzione per Germania anno zero (R. Rossellini, 1948) e Accattone (P.P. Pasolini, 1961) - a Bernhard, a Lelio Basso, a Franco Rossi e a Edmo Fenoglio. Fabio Carpi, Berto Cortina e Stanley Baker - l’attore di Giungla di cemento e L’incidente (J. Losey, 1960, 1967) - si dichiarano entusiasti. Piace a tutti tranne che a lui.
Domenica 12 febbraio 1961 scrive: “Non ho mai creduto nel film. […] Io penso che sia brutto, che non ci sia una formula. […] A me sembrano appunti per un film. Qualcosa di sconclusionato e velleitario. Non riesco a immaginare come possa arrivare al pubblico”. E poi: “Non mi sento più di lottare, tanto il film sarà sempre una schifezza” (10 aprile 1961).
Il 2 ottobre 1961, ovvero dopo essere stato a Venezia e aver vinto anche il premio come opera prima annota: “[Ho] la sensazione di essere capitato in un grosso equivoco (a me il film non piace, ai critici piace e già si sa che al pubblico non piacerà)”. A quel punto (siamo nel febbraio 1961), prende carta e penna e si mette a riscrivere tutto. Non è uno scherzo. Per un film salutato come un degno epigono del neorealismo, sembra quasi un’eresia.
Tra le altre carte conservate nel fondo De Seta c’è anche l’attestato del premio del City College – Robert J. Flaherty Award. Fa un certo effetto vedere in calce le firme di Jonas Mekas, Amos Vogel, David Flaherty (fratello di Robert), Richard Griffith e Anthony Mayer, tra gli altri. Pensare che un film vincitore di un premio Flaherty sia stato prima girato e poi riscritto fa un po’ impressione. Più che altro fa venire in mente la Regina di Cuori in Alice quando grida: “Prima la sentenza e poi il verdetto”.
Il 21 gennaio 1967 nel suo diario lui la racconta così: “In Banditi a Orgosolo sono andato su un luogo preciso. Avevo un sentimento, qualcosa da esprimere. Non ho scritto una sceneggiatura completa. L’ho scritta sul posto, adeguandomi alla realtà, sfruttando la realtà. […] Man mano nasceva la sceneggiatura. Poi c’è voluto molto lavoro di montaggio. Si è dovuta rielaborare la sceneggiatura al doppiaggio. C’è voluto tempo, ma ha funzionato. La sceneggiatura prendeva forma in funzione degli interpreti, dei luoghi. Così rimanevo documentarista. Domandavo a Michele cosa avrebbe fatto lui in una determinata situazione. Cioè non prescindevo dalla realtà. Michele era un pastore, Vittorina e Peppeddu erano di Orgosolo. Interpretavano se stessi.” (Le sottolineature sono tutte sue).
A fare il lavoro di rewriting viene chiamato Fabio Carpi, scrittore, sceneggiatore, futuro regista di Corpo d’amore (1962), nonché amico fraterno di De Seta. Il suo nome è uno di quelli che bisognerebbe aggiungere ai titoli di testa visto che dal 14 al 24 febbraio lavora a modificare il testo assieme a Vera e a De Seta: “Oggi abbiamo lavorato qualche ora a casa di Fabio. Sono venute fuori due o tre modifiche importanti. Rivedremo tutto il dialogo” (14 febbraio 1961).
L’operazione, apparentemente improba e insensata, è resa tra l’altro possibile dai vari campi lunghi e anche dal modo di parlare secco e a labbra chiuse che hanno tutti i personaggi del film (come neanche Bogart ai tempi belli).
Senza contare che il film avrebbe dovuto comunque essere doppiato visto che De Seta non aveva un fonico al seguito. Aveva sì un registratore col quale raccoglie rumori d’ambiente, versi degli uccelli, alcuni canti popolari (forse il “ballo tondo” del finale), ma non aveva modo di costruirsi neppure una colonna guida. Quindi un po’ lavora al buio e un po’ ci marcia, nel senso che piega a suo piacimento le immagini che ha girato. E poi chiama Gian Maria Volonté.
Nulla da dire sul lavoro di Volonté, ma sotto traccia un problema rimane. Lo esplicita lo stesso De Seta in una nota del 7 maggio 1988, dopo aver rivisto il film: “Quando Michele, il protagonista, comincia a parlare in italiano con la voce di G. M. Volonté, avverto il solito disagio perché in realtà avrebbero dovuto parlare sardo con i sottotitoli: il film però avrebbe perduto ogni commercialità”. Ovvero De Seta non fa la scelta ardita, ma più corretta, di Visconti con La terra trema (1948). Si accontenta di un italiano medio. Soltanto un americano (Scorsese) può scambiarlo per un ‘dialetto antico’; quello di Banditi a Orgosolo è un normalissimo italiano medio.
Per il carabiniere che interroga Michele c’è Ivo Garrani. La scelta è quasi obbligata. Garrani è un attore teatrale e cinematografico, è un doppiatore professionista, in televisione farà Delitto e castigo, Il giornalino di Gian Burrasca (è il padre di Giannino Stoppani), arrivando fino ai giorni nostri al ruolo di Sebastiano Poggi in Un posto al sole. Al cinema lavorerà con Visconti, Lizzani, Monicelli, Costa-Gavras, Vancini ecc.
E poi c’è il fatto che i due sono quasi parenti: Garrani ha sposato Mimma, la sorella di Vera Gherarducci. Che Garrani sia una delle voci è chiaro dai diari di De Seta. Che sia lui a doppiare il brigadiere si trova in Gerardo Di Cola, Le voci del tempo perduto (2004), dove si scopre anche che la voce del narratore è di Giancarlo Sbragia.
La cosa non è impossibile. Garrani, l’anno precedente aveva fondato assieme a Sbragia e a Enrico Maria Salerno la compagnia teatrale Attori Associati, dunque nulla di più facile che Sbragia venisse coinvolto anche lui nel doppiaggio di Banditi.
Quel che stupisce è l‘esiguità della parte che dura esattamente 63 secondi. De Seta, che da buon documentarista avrebbe fatto volentieri un film muto, resta indeciso fino all’ultimo se iniziare o meno il film con una voce off a mo’ di premessa esplicativa. “Comunque credo che sarà necessario premettere uno speaker che spieghi bene tutto del paese, della situazione, dei pregiudizi, che anticipi magari il giudizio che vogliamo dare […]. Si corre naturalmente il rischio di dire prima a parole quello che non si dice poi con le immagini e con la storia, ma forse è meglio di niente” (1 aprile 61). Certo che prendere Sbragia per una registrazione da 63 secondi è un po’ un overkilling. Un po’ come ingaggiare Maradona e farlo giocare in porta.
Peppeddu Cuccu (il fratello di Michele nel film) prova a doppiarsi da solo. Il risultato non è esaltante. De Seta quasi lo adotta e vorrebbe farlo rimanere a Roma a studiare e magari tentare una carriera nel cinema, ma il ragazzino deciderà comunque di tornare a casa (fonte “La Nuova Sardegna”, 30 novembre 2011). Una sera se lo porta anche al cinema (assieme alla figlia Francesca) a vedere La carica dei seicento (M. Kurtiz, 1936). “Pensavo fosse un film che andasse bene anche per bambini e invece mi sono pentito di averli portati. […] Il film risulta tutto una stupida esaltazione del militarismo e dell’eroismo fine a se stesso. Non c’è un solo personaggio che si possa dire tale. Solo un paio di macchiette” (30 marzo 1961). Decisamente Michael Curtiz non è tra i preferiti di De Seta.
Poi arriva Riccardo Cucciolla altra voce celebre, ma anche faccia celebre; basta ricordare il suo Nicola Sacco in Sacco e Vanzetti (G. Montaldo, 1971) o il suo Gramsci nel film di Lino Dal Fra Antonio Gramsci e i giorni del carcere (1977). “Cucciolla va bene per il primo latitante. Non va per il pastore del finale” (ibid.). E De Seta sobriamente aggiunge: “Domani viene Mimmo Modugno, speriamo bene”.
Ora, tutti sanno che Modugno aveva fatto il Centro Sperimentale, dove si era diplomato nel 1953 e che da lì in poi aveva iniziato una non clamorosa carriera di attore. Ma quel che a maggior ragione tutti sanno è che nel 1958 aveva vinto Sanremo con Nel blu dipinto di blu, che successivamente era andato in tournée negli Stati Uniti dove era stato ufficialmente ribattezzato ‘Mister Volare’, aveva vinto tre Grammy, aveva cantato al Carnegie Hall e aveva partecipato all’Ed Sullivan Show.
Allora cosa ci faceva il ricco e famoso Modugno nelle vesti di un umile doppiatore per un film di un regista esordiente, girato in Sardegna tra pastori sardi? Un possibile collegamento tra i due si trova pensando al film Vacanze d’amore (1955) di Jean-Paul Le Chanois di cui Modugno è interprete e De Seta co-sceneggiatore (assieme a Vitaliano Brancati “che mi disprezzava cordialmente”, 12 febbraio 1961). Ma scorrendo le pagine del diario si scopre di più. Il 26 maggio del 1963, compleanno di Vera, vengono invitati anche Modugno e la moglie. De Seta annota: “Siamo amici, io ho abitato con lui, nella stessa casa per sei mesi circa e poi è sempre stato gentile con me” (1 giugno 1963). Una gentilezza che probabilmente si era estesa fino a dargli una mano al doppiaggio del suo primo film.
Ma di nuovo c’è qualcosa che non va: “Ho capito che la consuetudine di doppiare film stranieri ha instaurato cattive abitudini nei doppiatori di professione. I personaggi che doppiano sono generalmente convenzionali: il cowboy, il gangster, il buono ecc. Non c’è tempo per approfondire, neanche voglia. Allora il doppiatore si rifà a schemi prestabiliti; questo ingenera meccanicismo, retorica. Volonté è bravo perché cerca di mettersi nei panni del personaggio, di interpretarlo” (23 marzo 1961).
Anche con Garrani le cose non vanno bene: “Il lavoro con Ivo mi ha stancato perché sento che fa resistenza. […] Noto con lui lo stesso senso di impotenza che provo con i tecnici e i collaboratori in genere. Questi si oppongono alle forme di espressione nuova in genere” (28 marzo 1961).
Di Peppedu s’è detto, ci prova, ma non funziona.
E allora si ricomincia: “Decidiamo di ridoppiare Peppeddu, Rais, il pastore della rapina, la moglie di Gonario, il pastore omertà” (8 aprile 1961). Il pastore omertà è di certo Gonario, ma il pastore rapina deve per forza coincidere con il pastore del finale (non ci sono altre rapine nel film). Dunque anche Modugno deve essere rimpiazzato.
Il 10 aprile scrive: “Rifatto il pastore omertà con Rubini. Provato Ellis (bene) per il pastore rapina.” Provato Savagnone per Peppeddu, male” (non è dato sapere se Deddi o Rita, entrambe celebri doppiatrici). Fino alla soluzione definitiva: “Abbiamo rifatto Peppeddu con la Piccinato” (23 aprile). Paola Piccinato, che già faceva Mintonia, è dunque anche la voce del giovane Peppeddu. Nessun problema in questo, al massimo bisognerà scurirle il tono, scrive De Seta.
In realtà il problema è un altro. È che Rubini e Ellis sono due perfetti sconosciuti. Qualche giorno prima, nella ricerca disperata di nuove voci per i rifacimenti, De Seta aveva citato tra gli altri “[…] provare anche Gusso, Donati, Urbini (CID), Tedeschi (SAS). Stasera vado a sentire al Piccolo di Milano per vedere se trovo qualche altra voce buona. Sentire anche la compagnia Scaccia-Mauri al Quirino e la compagnia Carbonoli-Piccinato al Ridotto” (8 aprile 1961).
Dunque è possibile che Rubini sia un refuso e che si tratti in realtà di Enrico Urbini, un doppiatore della CID. Su Ellis invece buio pesto.
C’è stato in quei tempi un attore di non chiarissima fama, di nome Mirko Ellis. Ma è difficile pensare che si sia prestato come doppiatore visto che lui stesso è stato doppiato spesso e volentieri, per esempio da Gualtiero De Angelis in Come svaligiammo la Banca d’Italia (L. Fulci, 1966) o da Pino Locchi in Annibale (C. L. Bragaglia, E. G. Ulmer, 1959). Dunque il mistero rimane.
Quel che è certo è che il pastore del finale non è Modugno.
La cosa è un po’ seccante. Sarebbe stato bello se Modugno, dopo aver urlato per mezzo mondo “Volare oh, oh”, si fosse trovato in una stanzetta della Fonolux, piazza di Cinecittà 11, a gridare “Bandito!”. Definendo così, in un sol colpo e per sempre, il destino dell’uomo e il titolo del film. Sarebbe stato bello, ma non è così.
Tra l’altro quell’anno Modugno si era rotto una gamba, ma era tornato in piena salute quando, il 12 settembre 1961, aveva esordito al Teatro Alfieri di Torino con Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini per cui aveva scritto le musiche e in cui, tra le altre cose, cantava, assieme a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la celebre canzone “Siamo rimasti in tre, tre somari e tre briganti”.
Cosa che, a pensarci bene, è anche una passabile descrizione delle vicende produttive del film di De Seta.