Ha ragione l’improbabile produttore francese interpretato da Mathieu Amalric: il nuovo capitolo dell’epopea cinematografica di Nanni Moretti è un film sovversivo. Nel senso che Il sol dell’avvenire sovverte molte cose, le cambia di segno. Piega la realtà al sogno, il reale all’ideale.

Si è parlato di un ritorno del vecchio Moretti, di un resuscitato Michele Apicella, ma non è così, per il semplice fatto che quel Moretti non se n’è mai andato. Quello cui assistiamo è solo l’ultimo atto di un sorprendente percorso di analisi collettiva del paese e di autoanalisi personale, che pochi registi hanno saputo portare avanti con tanta coerenza, con tanta determinata onestà. Tra il Michele Apicella dei primi film, il Moretti “documentario” di Caro Diario e Aprile e il Giovanni che, dalla Stanza del figlio, è il suo nuovo alter-ego (non tanto alter, visto che Giovanni è, all’anagrafe, il nome di Moretti), non ci sono poi tutte queste differenze. Perché – lo dice il protagonista del Sol dell’avvenire parlando con i produttori Netflix – le persone cambiano solo nei film. E nel caso di Moretti forse neanche lì.

Però, se anche non cambiano, comunque un po’ evolvono, attraversano fasi diverse dell’esistenza. È da Mia madre che Moretti, persona, personaggio e regista, ha superato suo malgrado il complesso di Edipo (anche se nel Sol dell’avvenire la madre è invocata più volte come nume tutelare) e iniziato ad accettare (e a farsi) delle critiche: a dirsi che non è poi tanto delizioso, che non è sempre il migliore (come lo psichiatra di Habemus Papam), che non è l’unico (come il regista di Sogni d’oro, come il politico di Palombella rossa).

Certo, per riuscirci ha dovuto ‘farsi interpretare’ da Margherita Buy, guardarsi dall’esterno. Ora, invece, ci mette la faccia, e si mette in discussione. Rinuncia per questo alle sue ossessioni? Assolutamente no. È ancora quello che diffida della stampa, che ama i dolci e odia i sabot e chi li indossa. Però accetta, almeno in parte, che il mondo non sempre è come lui lo vorrebbe. Si arrabbia di meno, e ascolta di più gli altri.

Per cercare di comprendere le persone che lo circondano, per provare a interpretare il presente, Nanni guarda al passato. Giovanni è un regista e sta girando un film ambientato nel 1956, l’anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, in una sezione PCI del Quarticciolo. Ennio, giornalista dell’“Unità”, si allinea con il partito, che appoggia l’URSS; la sarta Vera, invece, non ci sta, e condanna la violenza stalinista.

La crisi dei militanti comunisti di fronte ai carrarmati che marciano su Budapest procede di pari passo con la crisi coniugale del protagonista; anche per elaborare l’abbandono della moglie (sempre Paola, come Laura Morante nella Stanza del figlio, come la Buy nel Caimano: i nomi sono importanti) Giovanni non può fare altro che guardarsi indietro, ripensando la propria storia d’amore come fosse un musical, mettendosi “accanto agli attori” che la interpretano, contornandola di tante, bellissime, canzoni italiane.

Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.

I principi etici però restano, e non sono contrattabili: niente momenti “What the fuck?” come chiede Netflix, niente violenza “perché lo fanno tutti”. Però, come dicevamo prima, bisogna anche saper ascoltare gli altri, non farli vivere sempre come se fossero in bilico su un filo sospeso, sul punto di deluderci. Perché forse, a volte, possono avere ragione, e restare ancorati ciecamente a se stessi fa perdere di vista la giusta strada, ci conduce pericolosamente verso la più estrema disperazione.

E allora l’unica soluzione è fare la storia con i se. Visto che “non sei smielato se sei felice”, allora il finale può essere un altro, non quello che è stato, non quello che dovrebbe ma quello che sarebbe potuto essere. Quello che ci avrebbe resi tutti felici e contenti. Un finale felliniano, si è detto, ma anche quello di un film di Frank Capra: dopo che tutto è andato male, dopo che il mondo si è rivelato bieco e corrotto, dopo che la maggioranza si è schierata dalla parte sbagliata, tutto improvvisamente sembra ricomporsi per il protagonista “che gridava cose giuste”. Stalin sparisce dalle sezioni, si riscrivono i titoli dell’“Unità”.

La vittoria della “minoranza”, del pasticcere trotzkista, commuove e rasserena, ma in qualche modo la consapevolezza della bugia fa ancora più male. Perché, se in Palombella rossa il sol dell’avvenire poteva ancora essere avanti, una speranza a cui tendere le braccia, qui è inequivocabilmente dietro le spalle. Uno splendido sogno, di cui non perdere la memoria anche dopo un brusco risveglio.