“Volevamo comunicare una sensazione di storia raccontata come una versione moderna di Chandler”: come gli stessi fratelli Coen hanno più volte rimarcato, primaria fonte d’ispirazione del loro settimo lungometraggio, Il grande Lebowski, sono i romanzi di Raymond Chandler con protagonista Philip Marlowe, Il grande sonno in particolare: l’ambientazione losangelina, le allucinazioni del protagonista, le decisive similitudini tra i personaggi e soprattutto la costruzione narrativa, ovvero la struttura episodica del racconto, con il protagonista che si muove da un luogo all’altro della metropoli incontrando personaggi di differenti strati sociali.

Il grande Lebowski ricalca sostanzialmente questa architettura narrativa, strutturandosi come una continua successione di luoghi dislocati in zone diverse di Los Angeles (la casa di Dude a Venice Beach, la villa del “big” Lebowski a Pasadena, quella di Treehorn a Malibu, la casa di Larry Sellers a North Hollywood, il loft di Maude, la sala da bowling…) e di gruppi sociali isolati (la comunità del bowling, l’alta borghesia, gli artisti, i nichilisti tedeschi, le forze dell’ordine), il tutto tenuto insieme dagli spostamenti del protagonista.

Eppure non vi è nulla nel film che richiami gli stilemi o le atmosfere del noir. I generi, per i Coen, non sono che un grande serbatoio di temi e figure da cui attingere per ricreare qualcosa di segno completamente differente: una rilettura comica dei generi classici hollywoodiani (oltre che dei miti della cultura americana, a partire da quello dell’eroe). Il grande Lebowski è una commedia costruita come un noir che cita e allude ad altri generi, dal western, evocato nell’incipit e nella figura dello Straniero, al musical, a cui s’ispirano le sequenze oniriche.

Nella scena ambientata nella residenza di Jackie Treehorn, ad esempio, il film sembra vestire i panni del thriller. Il dialogo tra Dude e Treehorn è interrotto dallo squillare del telefono: sulle note di Lujon di Henry Mancini, Treehorn risponde, voltando le spalle a Dude, che con sguardo sospettoso si sporge in avanti: la mano di Treehorn traccia un appunto su un foglio, che poi stacca.

Si evoca intenzionalmente la possibilità di un mistero: quello sul foglio potrebbe essere un indizio importante e, quando Treehorn si assenta, Dude si alza e con una matita fa emergere i solchi di quanto scritto sul foglio strappato (citando il Cary Grant di Intrigo internazionale di Hitchcock), ma ne ricava soltanto il disegno stilizzato di un uomo con un’erezione. La scena è indicativa del meccanismo che governa l’intero film: siamo di fronte all’ennesimo McGuffin, l’accumulo di piste e indizi non conduce a nulla, al di là dell’apparente mistero non si cela che il vuoto, un vuoto di senso dai risvolti decisamente ironici.

Se, come scriveva Giorgio Cremonini, “una delle fonti del comico è la messa in scena di una incapacità o quanto meno di una difficoltà, di un dislivello schizofrenico tra il dover essere e il poter essere”, le movenze cartoonesche di Dude non fanno che accrescere la sua comicità fisico-gestuale e accentuare la sua inadeguatezza al ruolo che si trova a ricoprire, potenziando ulteriormente l’effetto comico della scena. Dude è quanto di più distante si possa immaginare dal detective chandleriano.

Non meno inadeguati, d’altro canto, sono gli antagonisti, tutti idioti, incapaci, pallidi ricordi dei veri cattivi dei noir: gli scagnozzi di Treehorn non sanno distinguere uno squattrinato da un milionario (né una palla da bowling da una da golf...), e i nichilisti, nonostante i metodi violenti e i suggestivi travestimenti, si rivelano dei principianti del crimine.

Non per nulla l’unica vera morte in questo non-noir è quella per infarto del personaggio di Donny, l’amico più defilato di Dude, causata dalla paura (quanto mai mal riposta) suscitata dall’attacco finale dei nichilisti.