Quando due anni fa venne presentato, sempre a Venezia, Spencer di Pablo Larraín, una delle letture più interessanti e gettonate lo vedeva proprio come un film horror. In effetti tutto tornava, in particolare per i temi e per il lavoro sull’immagine. Inoltre, il fatto che avesse diretto La storia di Lisey (tratto da King) e Jackie sembravano confermare pure un interesse per l’immaginario (oltre che per il mercato) americano in generale.
Eppure El Conde (visibile su Netflix), il suo primo vero horror, è in tutto e per tutto un film cileno. Qui Augusto Pinochet è un vampiro vivo da più di 200 anni e, preso da un’inguaribile tristezza dovuta al fatto che il suo popolo lo ricorda più come un ladro che come un assassino, vorrebbe porre fine alla sua esistenza. Proprio qui il regista sembra voler sintetizzare da un lato questo suo discorso stilisticamente direzionato e dall’altro un percorso culturalmente determinato. Sintetizzare, quindi, due “ossessioni”: l’horror (o l’immaginario cinematografico occidentale) da un lato e la storia cilena dall’altro.
Guardando al cinema di genere come a una via cinematografica che permette di materializzare la metafora nel modo più tangibile possibile, El Conde si confronta senza dubbio con un’eredità e con un passato che – per stare nell’allegoria fin troppo chiara – non muore mai. Così come la questione di Pinochet – oggi riemersa in patria come in parte riemerge ovunque un certo revisionismo per alcune dittature, nello specifico in Cile in cui, proprio in questi giorni, ricorrono i cinquant’anni del golpe – che Larraín ha trattato molte volte, ma mai nelle vesti di un vampiro. Ed è proprio lì che questo “conte” ha a che fare strettamente con il presente.
Quando si scopre che in città una serie di persone sono morte trucidate e dissanguate, i figli accorrono nella casa in cui Pinochet si è ritirato in esilio. Accade tutto lì (come un whodunit à la Knives Out, sempre di Netflix), lui vorrebbe morire, la moglie no, il maggiordomo vorrebbe essergli sempre più fedele e i figli vorrebbero stargli vicino, per capire quale potrebbe essere la loro eredità.
Non si capisce bene chi sia stato a compiere quegli omicidi, eppure una suora giunge in casa dichiarando di voler indagare, con l’intento di togliere il demonio dal corpo dell’ex generale, senza però cercarlo in particolari nei livelli profondi del suo spirito, ma in una minuziosa ricostruzione politica e “legale”, nei documenti, negli scandali, nei “casi giudiziari”.
Larraín questo tema lo ha trattato spesso, tanto da universalizzarlo. Nel film il discorso passa improvvisamente da una “locale” questione nazionale a una più grande questione “internazionale”. L’eredità diventa quella nei confronti delle dittature, ma anche nei confronti dei poteri che questo sistema – quello capitalistico e neoliberista – lo hanno comunque forgiato.
I successori, come i figli di Pinochet, non sono mai all’altezza, pur essendo tanti, diversissimi e nemmeno così convinti di quello che stanno cercando. Larraín, nella sua satira, con una buona intuizione, racconta come oggi l’eredità politica sia sempre coscientemente slegata a una corrispettiva responsabilità politica.
Per quanto evidente e servita, la metafora rimane precisa. E per storpiare un’abusata frase di Fredric Jameson – stando a questo film e all’eredità dei personaggi trattati, alla società contemporanea, al neoliberismo e alla fine della Storia – è ancora molto più facile immaginare la fine di un vampiro che la fine del capitalismo.