Roma in agosto occupa un posto a sé nelle location del nostro cinema. Luogo sospeso attraversato da varia umanità, calderone umano e architettonico dove cercare risposte vagando tra i fantasmi e le rovine della città eterna. C'è la Roma svuotata di Caro Diario, paesaggio-stato d’animo ideale da girare in vespa, da Piazza Mazzini a Casal Palocco, fino a Spinaceto. Quella di Un sacco bello, dove chi non è ancora partito per le ferie può sperare di incontrare l'amore che lo salvi dal mare di Ladispoli. Quella di Pranzo di Ferragosto di Gianni di Gregorio (che qui compare come supervisore artistico, e si vede), dove invece in città è rimasto solo chi è troppo vecchio, o troppo solo, per scappare.

A queste vacanze romane si aggiunge ora quella raccontata da Francesco Barbagallo nel suo film d'esordio, Troppo azzurro. E forse sempre di solitudine si parla: quella di Dario, ventenne della media borghesia romana, studente non tanto volenteroso di architettura, che vive ancora a casa dei genitori, comodamente coccolato da mamma e papà. Vorrebbe continuare a fare le vacanze con gli amici (che in realtà non ha mai fatto, perché ha troppe fisime), ma loro sono tutti impegnati con le rispettive ragazze. E così, un po' per caso un po' per necessità (anche se continua a dire che sta bene da solo) esce con Caterina, conosciuta al pronto soccorso (cucinando una platessa surgelata si è procurato un’ustione “di primo grado, anche uno e mezzo”), pur continuando a pensare a Lara, la ragazza bella e alternativa, idealizzata e irraggiungibile. 

Perché il problema di Dario è proprio Dario. Barbagallo (che, con spirito morettiano, scrive e interpreta, oltre a dirigere) costruisce su di sé, dimostrando buona dose di coraggio autobiografico, un personaggio che fa insieme rabbia e tenerezza, pieno di tic, angosce e paure. Una su tutte, quella di impegnarsi: non appena le sue storie d’amore diventano un po' più serie e rischiano di richiedere un minimo di coinvolgimento, lui fugge, si auto-sabota. Scappa. Non è un caso che le ragazze del protagonista abbiano l’impressione di essere tornate all’asilo, o nel migliore dei casi al liceo. Troppo Azzurro è infatti la storia di una grande fuga all’indietro: dalle responsabilità, dalle relazioni, dalle scelte, dall'età adulta.

Con Dario si empatizza proprio perché l'autore-attore non ne nasconde l’egoismo fragile, l'essere sempre centrato sostanzialmente su se tesso. In tempi di giovani emancipati e consapevoli targati Netflix, di dodicenni vegani, capaci di affrontare a testa alta la propria diversità, finalmente ne abbiamo uno che della vita non ci capisce niente e non sa bene come affrontarla. Uno che porta gli occhiali e i plantari, che è pieno di allergie più o meno immaginarie. Uno disumano, come gli dice l’amico Sandro, autoassolvente, che pensa troppo e troppo poco, che ha la capacità di dire sempre la cosa sbagliata. Un caso umano, come dice la fidanzata Lara, egoriferito per quanto simpatico, che forse non vuole crescere perché il mondo degli adulti, con i suoi litigi e i suoi ruoli definiti, un po’ lo disgusta, gli fa venire la  nausea.

Barbagallo non sbaglia neanche il ritratto dei genitori (Valerio Mastrandrea e Valeria Milillo), visti solo in relazione con il figlio: protettivi e carini, così tanto da risultare mandanti e complici di questa resistenza attiva al voler crescere. “Sei felice?” chiede la mamma, “Non sei felice?” chiede il papà. La risposta Dario non ce l’ha. Per raggiungerla, questa felicità, non gli basta, anche se vorrebbe, il semplice “osservare” richiamato da Nabokov nell’Occhio. Però ogni volta che prova ad agire ha troppa paura per andare fino in fondo; e anche quando, alla fine, si butta, ne esce comunque con le ossa rotte.

Piena di battute folgoranti, Troppo azzurro è una commedia misurata e non banale, ben recitata e ben scritta, con uno sguardo personale e originale, un suo ritmo (grazie anche alla musica di Pop X), dei bei personaggi, capace di dire qualcosa sul presente, sulle incertezze e sulle paure dei ventenni (e non solo sulle loro), senza moralismi o assoluzioni. Per un’opera prima, non è veramente niente male.