Un occhio senza palpebre a riempire l’intera inquadratura, riferimento buñueliano per eccellenza, è l’immagine ponte attraverso cui i fratelli Stephen e Timothy Quay spalancano le porte all’atmosfera surreale che permea il loro ultimo delirio audiovisivo.

Un viaggio in un emisfero distorto della mente umana, inscenato dal punto di vista deformante di un folle banditore d’asta che scruta attraverso le lenti del un’antica camera ottica in legno. Sette lenti e un misterioso cassetto che, stando a quanto si narra, contiene la retina del suo defunto proprietario. Retina che una volta all’anno, se l’oggetto si trova posizionato correttamente ai raggi del sole, si scioglie ungendo ognuna delle sette immagini contenute al suo interno mettendole in movimento.

Ha così inizio una danza di macabre immagini riprodotte attraverso uno sguardo perennemente interrotto e frustrato, secondo la linearità astratta del racconto onirico, in cui tutto viene vissuto tramite dettagli che sfuggono ed evaporano non appena ci si sofferma su di essi. Un padre lontano da raggiungere attraversando il velo della morte, un limbo in cui il passato deve ancora verificarsi, concentrato in un presente sospeso, abitato da figure demoniache e visioni beffarde. “Asa Nisi Masa” sono le parole che ad un tratto accompagnano l’attesa di Josef, unico punto di riferimento identificabile, ma non siamo in una fantasia malinconica di Fellini.

Le tinte umbratili e la compostezza sordida del visibile somigliano più ad un girone infernale di concezione lynchiana, con il ricorso ad una tecnica mista che fonde live action ed animazione in un tripudio delirante in cui la modalità di esposizione diviene il fulcro stesso del discorso.

Sanatorium Under The Sign Of The Hourglass prende spunto dall’omonimo racconto dell’autore polacco Bruno Schulz, già oggetto di una trasposizione cinematografica datata 1973 per la regia di Wojciech Has, ma per i Quay Brothers il testo iniziale è un viatico per la sperimentazione artistica, la sovversione del linguaggio filmico sul solco delle avanguardie di inizio Novecento. Un Entr’acte calato in una dimensione da incubo, una sfida reiterata al desiderio di ordine della percezione umana, che qui deve fare i conti con la parzialità della propria comprensione.

Tra (de)struttura da video arte e paradossi da cinema surrealista, il processo di costruzione del senso diviene fulcro di tematico. Un processo di rincorsa tutt’altro che pacifico, finanche respingente, ma proprio per questo efficace nella creazione di una testualità incorporea che stimola modalità di ricezione sopite.

Sanatorium si prefigura come un’opera da esperire più che da decodificare, un “labirinto di porte che sbattono” il cui percorso non trova giustificazione nell’esistenza di una via di fuga, ma nell’angosciante attesa di scoprire cosa si nasconda nell’ombra di ogni suo singolo anfratto. Un’aggressione sensoriale estenuante, a discapito della breve durata di settantasei minuti, ma da accogliere con sincero stupore laddove i rischi della presunzione e dell’autocompiacimento autoriali vengono aggirati da una totale devozione alla materia di cui si compone la propria creazione.

Non esistono chiavi di lettura imposte o facilmente veicolate, esiste solo il mondo scaturito da uno sguardo alternativo sulla realtà e le sue infinite variazioni pronte a generarsi ad ogni nuova visione, partendo da una materia oscura, la stessa di cui sono fatti gli incubi.