Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che si pone da subito come un elenco: un titolo che è già un indice, un film che è già consapevolmente un catalogo. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sanno che si può partire solo con delle distinzioni precise. Se nel loro precedente Guerra e pace l’indice era temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) qui è tipologico: Bestiari, Erbari, Lapidari. Una tautologia. Tre soggetti che rimandano a tre sfere, tre universi, tre dimensioni precise… universali, ma specifiche: animali, vegetali e minerali.

L’intento da subito è duplice. Il primo: mappare un terreno d’interesse non antropocentrico. Il secondo: continuare a lavorare a un cinema sempre più materico non solo nel lavoro con l’archivio e con la materialità dei documenti, ma anche con l’organicità stessa dei soggetti osservati.

Il posizionamento ancora più radicale però arriva nel momento in cui i registi scelgono tre dispositivi di messa in scena differenti per i vari capitoli, tre diverse idee di cinema. Potrebbero anche essere tre film distinti, affiancati, affrontabili separatamente.

Il primo, Bestiari, sottotitolato “il cinema inventa nuove gabbie”, è un found footage sull’immagine degli animali, sul perché li catturiamo in pellicola o sul perché li visualizziamo in digitale, dalla catalogazione degli zoo dei primi Novecento alle visualizzazioni contemporanee a raggi x per studiarne il funzionamento.

Il secondo, Erbari, sottotitolato “la cura”, è cinema di contemplazione sulle piante dell’Orto Botanico di Padova e una riflessione sull’agire umano di accudimento che poi si traduce ancora in archivi, documenti, cataloghi, analisi scientifiche.

Il terzo, Lapidari, sottotitolato “fossili del futuro”, è un documentario industriale sulla produzione del cemento, ma anche un lavoro teorico sulla pietra come medium, sui fossili come “prima reale forma di cinema”: pietre, cemento, ma anche lapidi, case che crollano, macerie come fossili della cultura umana, memorie per il futuro.

Questo flusso catalogato di immagini, seppure separato e organizzato, inizia ad aprire connessioni, tracciati, ipotesi. La prima è che D’Anolfi e Parenti, qualsiasi sia la materia che affrontano, si ritrovano sempre a occuparsi del suo lato visivo e visuale. È una presa di consapevolezza forte: nel momento in cui si fa cinema si prende atto dell’utilizzo del medium, si alimenta la coscienza, ci si pone le giuste domande, si decide che la materia con cui lavorare è prima quella dell’immagine e poi quella dell’oggetto rappresentato.

La seconda ipotesi si muove attorno ai temi dell’antropocene. Nell’episodio Erbari, una voce fuori campo, nell’Orto Botanico, dice che osservare le piante da un punto di vista umano è un’attività di per sé fallimentare o almeno non funzionale, sia per questioni temporali (vivono molto più a lungo) sia per questioni di grandezza (più del novanta per cento del pianeta è fatto di piante). I registi però non si chiamano fuori, questo film non intende porsi né pre- né post-antropocene, quanto piuttosto accanto.

Osservare gli animali, studiarli, curarli, guardare il modo in cui sono stati ripresi, fatti vivere e fatti agire; osservare le piante, prendersene cura, conservare i semi, raccoglierli malgrado una guerra; osservare le pietre, i significati che si trascinano, il portato memoriale, l’utilizzo funzionale… tutto ciò significa razionalizzare, far emergere l’interagire umano con queste strabordanti dimensioni di grandezza. Il catalogo è, da un lato, un’ammissione di impossibilità e, dall’altro lato, l’unico tentativo di comprensione umana possibile. Non resta che farlo sbocciare: Bestiari, Erbari, Lapidari lo fa.