The Room Next Door, nuovo film di Pedro Almodóvar, ha il ritmo del moto ondoso, una fluidità in cui i fitti dialoghi tra Martha e Ingrid oscillano con la delicatezza di una nave che viaggia verso l’orizzonte. Non ci sono picchi di tensione, non c’è disperazione, ma soltanto l’accettazione di qualcosa che sta finendo. È la vita stessa, nella sua caducità, che si anima e assume significato nelle parole delle due protagoniste.

Martha (Tilda Swinton), corrispondente di guerra per il New York Times, e Ingrid (Julianne Moore), scrittrice di romanzi di autofiction, dopo aver lavorato insieme ad un giornale si sono allontanate e ormai non si sentono da molti anni. Quando ad un firmacopie del suo ultimo libro Ingrid viene a sapere che l’amica ha un tumore quell’amicizia scriverà un nuovo capitolo.

Così il loro rapporto si risveglia proprio quando sta per essere costretto a spegnersi definitivamente. Tra un flashback tragicomico e l’altro, nei loro frequenti incontri, Martha racconta tante esperienze del suo passato. Episodi dalle zone di guerra, il suo rapporto ormai di estraneità con la figlia, il compagno che, reduce dal Vietnam, molti anni prima, si è suicidato gettandosi in una casa in fiamme.

Appena a Martha viene comunicato che le cure non hanno effetto e non le resta molto da vivere il dolore la avvampa, ma ha la lucidità di non voler lasciare alla morte l’ultima parola, di essere lei stessa a scegliere quando dovrà essere il suo momento. Dopo aver ottenuto, tramite dei contatti, una pillola dell’eutanasia, chiama Ingrid per farle la delicata richiesta di occupare la “camera accanto” alla sua quando deciderà di dare seguito alle sue intenzioni, per non restare da sola in quel momento così difficile.

Per Ingrid è una richiesta tremenda, è terrorizzata dalla morte, come scrive nei suoi romanzi, ma con grande senso di responsabilità accetta. Così Martha affitta una lussuosa villa, simbolicamente alle porte di un bosco, dove passare insieme all’amica l’ultimo atto della sua esistenza.

Tratto dal romanzo di Sigrid Nunez What Are You Going Through, The Room Next Door è il primo film in lingua inglese di Almodóvar. Una scelta sorprendente dopo una carriera così lunga nella sua lingua madre, che però non toglie minimamente qualità alla straordinaria sceneggiatura, valorizzata anche dall’estrema bravura ed esperienza delle due attrici.

I campo-controcampo si susseguono, tra il viso sempre più scavato di Tilda Swinton e quello di Julianne Moore. Tendenzialmente la prima parla e la seconda ascolta, assorta nel flusso di ricordi dell’amica. A dominare sono i volti, la loro espressività nelle smorfie di dolore e nei sorrisi, nella loro volubilità di fronte al momento più tragico, ma anche, paradossalmente, più ironico dell’esistenza. L’idea stessa della morte, dell’infinito vuoto che segue alla vita e della consapevolezza della miseria dell’esistenza, sono la base dell’ironia, dell’affiancamento del microscopico col macroscopico, del particolare con l’universale. Di fronte all’eternità il nostro dolore appare ridicolo.

Come scrive Joyce nel famoso epilogo dei Dubliners, più volte citato nel film, offrendo proprio quel senso totalizzante della morte: “La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l'universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti”. Ma l’ironia non annulla la tragedia, permette soltanto di accoglierla con maggior dolcezza, ed è esattamente questo che avviene nel film.

La morte non è un nemico da affrontare, come ripete più volte Martha annebbiata dalla retorica bellica frutto della sua professione, ma, come dimostrerà lei stessa con le sue scelte, va accettata e accolta senza paura. Solo così si può affermare la vita, che brilla di significato nella sua caducità.

Per questo Almodóvar sceglie di usare colori vividi, come il rosso, il giallo acceso di una delle scene finali, o anche, dall’altro lato, il bianco della neve, simbolo di fine, ma anche di rinascita. Seppur ci sia un senso di decadimento, incarnato soprattutto dal corpo di Tilda Swinton, che a un certo punto appare quasi come un fantasma, o dagli spazi vuoti e spigolosi della grande villa, è la vita stessa a trionfare.

Va in questa direzione la regia di Almodóvar, dando forma ad un inno all’autodeterminazione, un’ode alla scelta che è vita nel suo senso massimo, anche nel momento in cui questa ci sta abbandonando.