A distanza di quattro anni da Beginning, il suo primo lungometraggio, Dea Kulumbegashvili realizza un nuovo film, ancora più radicale e militante del precedente. Di nuovo la regista georgiana mette lo spettatore nelle condizioni di vedere, di percepire in ogni singola cellula del suo corpo, la sofferenza psicologica e fisica che le donne sono costrette a subire nelle zone rurali della Georgia. Una violenza che non lascia scampo e a cui la protagonista si oppone in una lotta silenziosa, ma esasperata.

Come la nascita stessa, April ha un inizio traumatico e violento. Prima un mostro deforme dalle fattezze femminili, spaesato più che spaventoso, si guarda intorno in piedi su un nero specchio d’acqua. Poi, su un letto d’ospedale, in una scena cruda fino al raccapriccio, una donna dà alla luce un bambino morto a seguito di un parto prematuro.

Il marito pretende che venga aperta un’inchiesta soprattutto perché a occuparsi della moglie è stata una donna, Nina (Ia Sukhitashvili), una delle ostetriche migliori dell’ospedale. I riflettori puntati su di lei rischieranno di svelare le attività clandestine con cui aiuta le donne del villaggio ad abortire, contro legge e senso comune.

La vita e la morte si oppongono nell’alternarsi tra le peregrinazioni di Nina nei campi variopinti in cui imperversano i colori della primavera e la metallica ambientazione dell’ospedale. Ma anche in quei paesaggi bucolici, mostrati attraverso lente soggettive, un respiro affannato perseguita lo spettatore e un senso di angoscia lo avviluppa fino alle viscere. Lentamente viene calato nell’angusta esistenza di Nina, un personaggio, come direbbe Fromm, afflitto da una solitudine morale, con una visione del mondo unica e incomprensibile in quel contesto culturale così ispido e retrogrado.

Le donne di April sono schiacciate, oppresse, sensazione che si manifesta nel claustrofobico rapporto 4:3 in cui sono imprigionate le immagini. Le gravidanze, da possibile momento di felicità, si trasformano in uno strumento di controllo e la primavera, simbolicamente, da momento gioioso, produce invece l’effetto opposto, di rigetto e angoscia.

Così i figli si riducono ad un bieco meccanismo di dominio sotto la ferocia imperturbabile del patriarcato, una catena sempre più salda che costringe le donne in un ruolo che non hanno scelto. Rifiutare la gravidanza, anche clandestinamente, nel silenzio, consumando di nascosto una pillola anticoncezionale, è l’ultima ribellione possibile.

A differenza della protagonista di Beginning, Nina però non si piega, soffre, patisce, accumula dolore e rabbia impercettibili attraverso il suo sguardo quasi assente, ma agisce con consapevolezza. Distribuisce pillole anticoncenzionali a ragazze giovanissime, con destrezza e lucidità aiuta donne ad abortire sul tavolo della loro cucina, non ha nessun problema a non sposarsi e, addirittura, adesca uomini a bordo strada per soddisfare i suoi desideri sessuali.

Nonostante nel film regni la staticità, interrotta soltanto dalle soggettive di Nina, che vaga per la campagna o che di notte si guarda intorno alla ricerca di uomini, le immagini calamitano l’attenzione dello spettatore, trasudano dolore e sofferenza autentici. La dilatazione temporale delle inquadrature non è fine a se stessa, ma ha un senso chiaro, quello della partecipazione reale alla scena.

Un esempio è il momento in cui Nina pratica un aborto a una ragazza su un rozzo tavolo. La macchina da presa è fissa sul fianco della paziente, si vedono, da un lato, la mano di lei che stringe quella della madre e, dall’altro, le mani di Nina che si muovono tra le sue gambe. L’ansia che il padre possa tornare da un momento all’altro e il turbamento che provoca la scena sono una testimonianza vera, una fotografia cruda e spietata con la quale lo spettatore è costretto ad immedesimarsi.

Dea Kulumbegashvili articola un film stratificato, sotto certi aspetti criptico, testimone di una violenza brutale e disumanizzante. Con la calma del serial killer conduce lo sguardo del pubblico dove altrimenti non lo poserebbe, su una realtà autentica quanto asfittica e priva di speranza, senza la minima paura della complessità.

Il merito di April infatti è proprio quello di non accettare compromessi, di seguire la sua strada pur rischiando di non farsi comprendere, accogliendo la responsabilità di dare voce a chi non ha né la possibilità né il diritto di esprimersi.